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DUE DI NOTTE - al Teatro Moderno di Latina fino a domenica 20 novembre - è una commedia originale che inizia un po’ in sordina, ma in un crescendo di battute esilaranti, per concludersi in maniera quasi poetica.

Ci troviamo in una radio locale romana, la scenografia è scarna ma funzionale al tema proposto, e due speaker amici/nemici si contendono il palco mettendo in scena una diatriba effervescente. Gli ascoltatori chiamano in radio la notte di Natale, un po’ per fare gli auguri e un po’ per prendersi gioco dei protagonisti, ma anche dello spettatore. 

L’umanità rappresentata è varia - e forse anche un po’ avariata - e lo spettacolo risulta piacevole, divertente e a volte anche commovente per tutta la sua durata: un’ora e mezza di grande presenza scenica per il duo Zecca/La Ginestra. Da non perdere!

Pamela Caschera

Y lo que cambió ayer tendrá que cambiar mañana

así como cambio yo en esta tierra lejana. 

- Mercedes Sosa -

 

ALTROVE è un incontro tra persone insoddisfatte  e sole, su di un palcoscenico la cui scenografia è allestita con giostre di un parco per bambini, un luogo che simboleggia al contempo incoscienza e  immaturità. Ed è proprio qui che avviene "l’incontro" che porterà i protagonisti a pensare all’altrove - a qualcosa al di fuori di se stessi che conduce infine ai sogni se non più esattamente al Sogno - ripercorrendo quello che è stato, ovvero il passato a noi più prossimo.

Da queste semplici e interessanti riflessioni si sviluppa il testo e lo spettacolo di Paola Ponti  che vede protagonisti - in una Roma di borgata - un padre calabrese (interpretato da un energico Massimo De Lorenzo), e un figlio romano (Mario Russo)  che si imbattono improvvisamente in una donna francese (Constance Ponti) che gli cambierà la vita, o forse no. 

Un connubio di identità diverse che sfocerà, ad ogni modo, in una metamorfosi tra scene di nevrosi e di spiccata ironia per raggiungere quell’altrove - tanto agognato - di cui non vedremo la concretezza ma che potremo soltanto immaginare o sperare.  In che modo ciò che abbiamo dentro può mostrarsi al di fuori? E se l’altrove dove concretizzare la nostra vita fosse proprio dentro di noi?

Lo spettacolo - tra le note di un flauto e di Mercedes Sosa - sarà in scena al Piccolo Eliseo di Roma fino a domenica 27 novembre.

 

Marianna Zito

Regista teatrale e direttore artistico marchigiano, Roberto Cimetta è un artista folle e creativo morto a soli 39 anni nel 1988, il cui lavoro si sviluppa soprattutto nei primi anni ’70 e mira all’attuazione in Italia di un teatro sperimentale, libero dalle regole tradizionali.

Dario Migianu Baldi - regista e sceneggiatore romano - ne ripercorre liberamente la vita in una pellicola e per farlo si serve di un occhio esterno, quello di una giornalista italo-francese, Anna (interpretata da Lavinia Longhi) che, alla ricerca di suo padre, inizia a documentarsi sulla vita di questo geniale uomo di teatro (interpretato da Corrado Fortuna) e grazie a questo percorso riuscirà a far luce sul suo passato.

L’obiettivo è una scoperta, una rivelazione artistica che vuole renderci curiosi verso ciò che ci è sconosciuto ma che è più vicino a noi di quanto possiamo pensare.

Prodotto dalla società Guasco s.r.l. di Ancona e distribuito da Mariposa, LA LEGGENDA DI BOB WIND sarà nelle sale di Roma al Cinema Jolly (Via Giano della Bella, 4) da venerdì 11 novembre alle ore 20.30 e alle ore 22.30. All’anteprima dell’11 saranno presenti il regista Dario Baldi con gli attori del film Corrado Fortuna, Lavinia Longhi, Paolo Briguglia e Ivan Franek.

Trailer del film su:  https://video.comingsoon.it/MP4/24656.mp4

 

Marianna Zito

Marco Vergani è solo sul palcoscenico. Da subito ci troviamo di fronte una persona insicura, quasi in difficoltà e ne restiamo dubbiosi e perplessi.                               Quest’uomo così fragile si chiama Renato Cane

Dall’analisi quotidiana di una vita all’insegna della routine e della normalità - realizzata grazie a un lavoro, una moglie e un figlio - la regia di Vinicio Marchioni su un testo di Valentina Diana - sviluppa una riflessione profonda su un tema che in un modo o in un altro riguarda tutti, la morte. In questo caso si parla di morte consapevole. Quale diventa la nostra reazione dinnanzi a essa? Può essere un bisogno, un obiettivo da cui si può trarre un profitto? Cosa potremmo fare per far sì che diventi anch'essa oggetto di desiderio?

Ed ecco che un Renato Cane nella sua solitudine, tra ironia e rassegnazione, ci racconta come prepara se stesso a morire e come è possibile trovare conforto sui treni, tra sconosciuti e grazie a pitture schiacciate mentre, piano piano, si crea un distacco dalla realtà che inevitabilmente riscopriamo manipolata dai soldi e dal benessere materiale.

Il ticchettio del tempo che passa e le luci basse creano uno scorrere lento e faticoso del dramma che ha le sue riprese esilaranti nel momento in cui ricomincia la musica, dandoci la possibilità di assistere a un Vergani esemplare che da Cane si trasforma in medico e poi in nano (sorridendo pensiamo all’Igor di Mel Brooks) e che riesce a tenere la scena e l’attenzione del pubblico per più di un’ora.

L’eternità dolcissima di Renato Cane - una produzione Khora Teatro, in scena al Brancaccino di Roma fino al 6 novembre - è il secondo appuntamento (dopo LA VOCE UMANA di Marco Carniti https://modulazioni-temporali.webnode.it/news/la-voce-umana-di-marco-carniti-al-teatro-brancaccino/) con Spazio del Racconto, la seconda edizione della rassegna teatrale del Brancaccino - che vede come coordinatore artistico Emanuela Rea - e che sofferma il proprio sguardo sulla drammaturgia contemporanea. Attraverso una serie di spettacoli e incontri ci si pone qui l'obiettivo di comprendere e analizzare insieme le fragilità e le nevrosi del nostro tempo.

Marianna Zito

Il dramma di Annibale Ruccello - uno degli autori più importanti della Nuova Drammaturgia Napoletana - è in scena dal 1983 e lo ritroviamo in questi giorni al Teatro Quirino con la regia di Enrico Maria Lamanna e la strabiliante Giuliana De Sio nei panni di Adriana: una casalinga in attesa del terzo figlio, angustiata dalla quotidianità e oppressa dai suoi spazi - in un paese limitrofo alla realtà napoletana - isolata e barricata nel suo appartamento.

 

A partire dalla storia di questa donna sposata con il metronotte Michele - Mimmo Esposito - ma fondamentalmente sola, comincia un viaggio introspettivo e onirico che attraversa infanzia e adolescenza di Adriana pieni di segreti e sogni incompiuti che si ripercuotono su di lei in maniera costante, fino a sfociare in una realtà drammatica. Oltre al dramma ci troviamo di fronte a un capolavoro di comicità che si avvicina al noir cinematografico tipico degli anni ’70, espresso con una marcata lingua partenopea.

La quiete notturna viene improvvisamente interrotta da una donna in fuga - Rosaria De Cicco - che porterà - oltre a un grande scompiglio - anche l’ingresso di due nuovi personaggi nocivi alla nostra protagonista. Accanto ai pericoli del presente però si palesano inesorabili i fantasmi del passato che creano ulteriore nevrosi e confusione. Grazie o a causa di questi improvvisi elementi esterni le ossessioni di Adriana si concretizzano sì liberandola ma con conseguenze tragiche e irrimediabili.                                                                                                                                                                                                                                                                                 

Gli spazi scenografici sono utilizzati in modo ottimale, la stessa struttura, che inizialmente ci propone l’interno di un appartamento serrato in cui gli unici contatti con il mondo sono tramite la radio e un vecchio televisore, si trasforma per trasportarci - attraverso porte e finestre -  in esterni e in cornici del passato che vedono al fianco della protagonista le figure materna e paterna.  

Giuliana De Sio continua ormai da anni a rendere attuale e concreto questo spettacolo che ci mostra i  pericoli della metropoli, la nevrosi e violenza sulle donne. Il suo personaggio è spontaneo e naturale, ingenuo e disperato e a lei ci si affeziona e la si compatisce rendendola parte di noi o un’amica lontana di cui serbare il ricordo.

Fino al 6 novembre al Teatro Quirino di Roma!

 

Marianna Zito

Un’atmosfera sinistra e misteriosa quella che si respira in queste sere sul palcoscenico del Teatro Brancaccio, dove viene narrata la storia del personaggio storico Anna Goeldi - L’Ultima Strega - decapitata per stregoneria a Glarona nel 1782.

È il Natale del 2008 e due giornalisti, alle prese con il lavoro in redazione, si ritrovano tra le mani un libro su Anna Goeldi e, improvvisamente, la loro immaginazione li catapulta alla fine del ‘700 - nel periodo e nel luogo in cui la donna visse - per ripercorrerne la vita, la sofferenza e la condanna a morte.

Anna Goeldi - interpretata da Valeria Monetti - è sola ed emancipata, in una realtà che non le appartiene e dovrà subire la vendetta e le angherie di un uomo molto prestigioso all’interno di quella stessa comunità che la processerà e che a lei è così estranea. Questo medico illuminista - interpretato da un notevole Cristian Ruiz - ha in comune con lei un segreto del passato. Accanto alla donna si schierano alcuni personaggi tra cui la piccola Sara - la giovanissima Mikol Barletta - perno importante su cui ruota la vicenda narrata, ma contro di lei ci sarà anche la Chiesa, "il potere morale, rappresentato da Lorenzo Gioielli".


Comincia così la storia - scritta e diretta da  Andrea Palotto - intrecciata tra presente e passato, che vede coinvolti 16 attori in costumi d’epoca, con dialoghi sovrapposti e fermo immagine, che alternano il dramma di fondo con battute divertenti e provocatorie che allentano i momenti di tensione e rendono lo straordinario musical adatto sia ai più grandi sia ai più piccoli.

Le musiche di Marco Spatuzzi e l’Orchestra dal vivo diretta da Andrea Scordia sono suggestive - insieme al gioco di luci e ombre - su una scenografia in grado di mostrarci in contemporanea sia ambienti interni sia esterni, (ci soffermiamo facilmente, ad esempio, sul balconcino che ci riporta alla mente la storia dei due amanti di Verona).

L’Ultima Strega sarà in scena al Teatro Brancaccio di Roma fino al 6 novembre!

 

Marianna Zito

Lucrezia Lante della Rovere porta in scena al Piccolo Eliseo la storia di una donna che fu una “creatrice” dei tempi moderni, una fata verde che - forte come l’assenzio - ammaliava e allo stesso tempo distruggeva tutti quei geni che fecondava con il proprio polline: Misia Sert. Ed è proprio avvolta da un vestito verde - che mette in risalto la sua forma longilinea - in contrasto con stivali rossi e capelli mogano - che la protagonista si presenta davanti alla platea incastonata in una scenografia circolare di luci dove - su un tappeto porpora - si innalza un’immensa poltrona, a simboleggiare i salotti di fine ‘800 e inizi ‘900 - gli anni parigini del jazz, dei festini e dell’ebbrezza -  dove Misia ospitava, si accompagnava e si dilettava circondata dalla sua cerchia di amici artisti e intellettuali.

Un lavoro, quello di Francesco Zecca che ci regala un forte impatto di colori armonizzato dai movimenti di Misia  che abbracciano una scenografia incentrata tutta sul monologo della protagonista ma che riporta inevitabilmente verso il “salotto” senza lasciare spazio a ulteriori evoluzioni di forme: gli effetti luce la incorniciano come in un quadro ma allo stesso tempo la rendono prigioniera del proprio spazio.

Comincia da qui il testo inedito di Vittorio Cielo, liberamente tratto dall’autobiografia di Misia Sert: il monologo dei ricordi, degli oggetti e delle persone amate. Li chiama uno per uno, in primis Coco, a seguire Mallarmé, Proust, Valery, Lautrec, Debussy, Cocteau, Renoir, Picasso e altri ancora, tra una cena e un brindisi, come allora. Di ognuno di loro era Ape Regina e Musa, nella Parigi splendente dello Chat Noir.

 Misia - P. A. Renoir, 1903

La musica e il silenzio costituiscono i passaggi e gli stati d’animo della protagonista: esuberante, crudele e viva, un vero e proprio delirio alla ricerca del tempo perduto o di una madre morta d’amore. Una vita vissuta sopra le righe a osservare il mondo da altre angolature, per eludere il dolore e così sopravvivergli, per escludere gli altri prima di esserne trafitti.

Figlia d’arte, tre matrimonio ma solo un unico vero amore José María Sert, che le regalò immensa gioia e sofferenza,che accompagnò fino alla decadenza questa donna che non faceva arte ma vi partecipava costantemente, rendendo la propria stessa vita "l'opera d'arte". Per sempre viva per sempre morta.

Dopo una prima emozionante ed applaudita Io sono Misia – l’Ape Regina dei Geni replicherà al Piccolo Eliseo di Roma fino al 13 novembre. Un’occasione da non perdere per conoscere la vita della donna più ritratta di ogni tempo e ispirazione per  molte opere letterarie.

 

Marianna Zito

 

La voix humaine di Jean Cocteau, messa in scena nel 1930, è tra i testi teatrali più rappresentati e riadattati: fondamentale è la trasposizione lirica ad opera di Francis Poulenc nel 1959 e memorabile è l’interpretazione di Anna Magnani nella riproduzione cinematografica di Rossellini del 1948.

La versione di Marco Carniti, in scena fino al 30 ottobre al Teatro Brancaccino, si configura, contraddistinguendosi come una lettura contemporanea di un dramma universale, quale è quello dell’abbandono da parte della persona amata.                              Il processo di metabolizzazione del distacco, affrontato dalla protagonista - Carmen Giardina - si svolge in uno spazio piccolo dall’allestimento scenografico insolito e innovativo: al centro dello spazio scenico non vi è un letto, simbolo per eccellenza dell’unione amorosa su cui abbandonarsi, ma un totem meccanico costituito da lavatrici impilate l’una sull’altra a cui rivolgersi nel vano tentativo di cancellare tracce e ricordi della persona amata.

Lei, psicoterapeuta ora nel ruolo di paziente - incapace di curare se stessa e gli altri - in veste da camera, è inserita in una meccanica quotidiana in cui si sposta in modo automatico e frenetico tra oggetti che, da un lato, ostacolano il suo movimento ma che, dall’altro, le permettono di sfogare e dimenticare il proprio dolore (le sigarette; la bottiglia d’alcool e di medicine).                                                                                                          Donna sull’orlo di una crisi di nervi che rifiuta sia lo specchio per non vedere il proprio corpo distrutto e la distruzione della propria relazione, sia un cane ‘non da donna’, di cui non sa prendersi cura e il cui sguardo di rimprovero sembra essere un monitor che le ricorda il male commesso a Lui.

In questa prigione con elementi contemporanei, invasa dai mezzi di comunicazione con suoni assordanti, facilmente riconoscibili anche per lo stesso spettatore, il telefono è e rimane l’accessorio fondamentale di questa crisi sentimentale ma viene rappresentato nelle sue polifunzionalità: da dispositivo wireless a strumento di connessione audiovisivo.                                                                                                                               I rumori della tecnologia odierna assurgono alla figura di altri protagonisti, altro soggetto fondamentale e drammatico: una seconda voce sul palco in sé plurima, debole per il segnale e per la durata della batteria, fastidiosa per l’intermittenze ma sempre necessaria in quanto ultimo appiglio di collegamento con l’amato.

Il tema della follia d’amore, con esplicito riferimento a William Shakespeare, nonché quello della menzogna, sono realizzati anche attraverso movimenti di luce che tentano di intensificare i momenti di maggior pathos e attraverso musiche che a tratti sovrastano o sostituiscono la parola vocale. Si viene così creando un ritmo tragicomico e - a tratti - ilare che va dall’accondiscendenza e dalla gratitudine che la protagonista mostra nei confronti del suo amante, alla rabbia e alla farsa di autorappresentarti come donna incredibilmente forte, dotata di una forza a lei ignota.

Questo esperimento teatrale, pur mantenendo il rapporto con il testo originario, prova a porre l’attenzione su come i mezzi di comunicazione contemporanea possano interferire nelle nostre relazioni fino a creare una confusione all’interno di noi stessi.

 

Eleonora De Caroli

Andare a vedere il Misantropo ovvero liberi esperimenti dell’arte del vivere sociale - tradotto, adattato e diretto da Francesco Frangipane - è come entrare in una dimora sconosciuta, in cui si viene accolti e messi a proprio agio. Ed è proprio questo che fanno gli attori: ci fanno strada e ci accompagnano al centro della scena, dove man mano si aprirà uno scorcio nuovo, un’altra realtà.

Questa lettura del Misantropo di Molière è attuale, abbandona il seicento francese per divenire il vernissage serale dell’artista Oronte - interpretato da Vincenzo De Michele - accompagnato da un dj set - gestito in diretta da  Antonello Aprea - da balli e spritz, mentre i temi di fondo del testo restano inalterati.                                                                I 5 atti originali e i personaggi sono stati abilmente limati per lasciare spazio a un notevole e disperato Alceste - interpretato da Arcangelo Iannace -  e a una euforica ed elegante Vanessa Scalera nei panni di Celimene. Perfetti nella loro mise, che in apparenza li evolve, tutti i personaggi si abbandonano alla frenesia del ballo che immancabilmente diventa lo specchio della loro instabilità e della loro sofferenza interiore. Un impatto visivo tangibile e armonioso in una scenografia arricchita dagli elementi del vernissage in corso - statue e dipinti - che fanno altresì riferimento a tutti quegli elementi legati alla manipolazione e alla colpa individuale e collettiva (intravediamo, ad esempio, La visita della vecchia signora di Friedrich Dürrenmatt).

L’apparenza diventa, quindi, il filo conduttore di menzogne e adulazioni sempre già viste e sempre già sentite, che il nostro orecchio mai vuole riconoscere come vere, nemmeno davanti all’evidente oggetto del torto subito. Non mancano le accuse, le scuse e le condanne ingiuste inflitte a chi si arrischia verso la lealtà. Da allora a oggi nulla è cambiato: è l’ipocrisia alla base delle più solide leggi che contraddistinguono la nostra società e di conseguenza le nostre vite.

Un testo ben delineato nel suo scorrere che arriva direttamente davanti agli occhi e alla coscienza di chi lo guarda. In scena fino al 23 ottobre al Teatro Argot Studio.

Marianna Zito

Foto di Manuela Giusto

Arriva al Teatro Moderno di Latina la commedia Finché giudice non ci separi, scritta da Augusto Fornari, Toni Fornari, Andrea Maia e Vincenzo Sinopoli.

La commedia parte da temi leggeri che man mano diventano più riflessivi e anche - per certi versi - amari, nel corso dello spettacolo. Luca Angeletti, Toni Fornari, Laura Ruocco, Augusto Fornari e Nicolas Vaporidis, molto bravi ed efficaci dal punto di vista comico, riescono a trasporre in modo divertente - ma allo stesso tempo profondo - i nervi scoperti che ormai caratterizzano la società del nostro tempo.

Massimo tenta il suicidio a seguito del divorzio dalla prima moglie e gli amici più cari tentano di sollevarlo dalla depressione. Da questo tema portante, si sviluppano una serie di gag inscenate in salsa agrodolce, nelle quali ognuno di noi può facilmente immedesimarsi: l’amicizia, l’amore, la rabbia scaturita dall’abbandono, la solitudine, il voler essere giovani per sempre.

Ogni personaggio porta in scena nevrosi e debolezze che segnano il contesto sociale odierno. Ognuno di loro, infatti, impersona delle caratteristiche che possiamo osservare nella realtà che ci circonda: il cinico, il semplice, il disperato e il romantico. Entra in scena Laura Ruocco, la vicina di Massimo, e gli equilibri dapprima creatisi ricadono in un turbinio di sorprese, battute al vetriolo, ma anche di amare constatazioni sull’egoismo imperante del tempo presente.

Una commedia brillante e a tratti anche commovente che, oltre al divertimento, apre molti spunti di riflessione che accompagneranno lo spettatore fino a casa e oltre.

 

Pamela Caschera

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