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È festa, potrebbe essere Natale o comunque uno di quei giorni da passare in famiglia. Sulla banchina di una metropolitana - forse di una grande città - si incontrano, si sovrappongono e si scontrano tre vicende differenti: due sorelle oramai lontane, una coppia al capolinea e due giovani amanti. L’attesa è il filo conduttore di queste vite sterili: l’attesa fisica dell’arrivo di qualcosa o di qualcuno oppure l’attesa utopica di aspettative da realizzare.

Su un palcoscenico vuoto con solo una valigia - simbolo di partenze e di ritorni - cinque attori ci parlano del tempo attraverso le esperienze passate, presenti e future in cui è, inoltre, narrato il legame con le proprie famiglie che – in alcune circostanze - può anche nascondere spiacevoli sorprese. A volte, comincia a stare stretta la vita che si ha, fino a desiderare situazioni che non esistono e che nemmeno si desiderano del tutto.  Quindi vediamo che all’attesa si lega inevitabilmente la mancanza e di qui si snodano tutte le insoddisfazioni  - vogliamo sempre ciò che non possediamo e quando arriva quasi quasi non lo verremmo più - che creano uno scontro interiore tra il potere e il volere. In tutte queste dinamiche giocano un ruolo determinante lo scorrere del tempo, le ansie e le paure che disorientano e distruggono emotivamente.

Si crea così un percorso introspettivo che ha come risvolto fondamentale il dialogo tra le persone, in cui viene innanzitutto sottolineata la necessità di essere ascoltati e dove ognuno oltre a essere il protagonista e l’attore della propria esistenza diventa, allo stesso tempo, spettatore dell’altro.

Dal 5 al 16 aprile il Teatro dell’Orologio di Roma ospita il Focus Premio Riccione con tre testi vincitori delle edizioni passate del premio per il Teatro: ad aprire e in scena fino all’8 aprile ci sarà appunto Sterili di Maria Teresa Berardelli e la regia di Camilla Brison, a seguire Due Fratelli di Fausto Paravidino e la regia di Riccardo Bellandi e per finire Homicide House di Emanuele Aldrovandi e diretto da Marco Maccieri. L’intento è puntare l’attenzione su testi originali e scritti da giovani autori. Per tutta la durata dell’evento sarà allestita una mostra fotografica che racconta la storia del Premio Riccione e per concludere nell’ultima giornata si volgerà un incontro di lettura dei testi vincitori dell’ultima edizione. 

 

Marianna Zito

Uno spettacolo che non ha bisogno di molte presentazioni dato che il pubblico della prima al Teatro Quirino di Roma, subito dopo l’apertura del sipario, accoglie gli attori con un caloroso applauso. Assistiamo quindi a una rappresentazione - che in passato è stata molto amata ed acclamata dal pubblico di tutte le sale - con un cast d’eccezione che vede in prima fila Silvio Orlando e Marina Massironi con la regia di Daniele Luchetti.                                                                                                                                        La Scuola è tratta dal testo di Domenico Starnone e fa la sua prima comparsa a teatro nel 1992 con il titolo Sottobanco per diventare negli anni successivi un famosissimo film che ben rappresentava gli ambienti scolastici di quei tempi.

Dopo 24 anni, quindi, torna la commedia che analizza la situazione della scuola italiana – al giorno d’oggi visibilmente peggiorata - che manca delle fondamenta essenziali e indispensabili per la preparazione dei nostri giovani al mondo del lavoro, al loro futuro.

Il palcoscenico diventa una palestra che – allo stesso tempo – svolge anche la funzione di una sala professori a causa di un guasto nella scuola. Quindi oltre ai problemi organizzativi ci troviamo davanti a veri e propri problemi di logistica e precarietà. Ed è in questo ambiente che i docenti – tra cui il professore di lettere Cozzolino interpretato da Silvio Orlando - devono decidere le sorti dei ragazzi della quarta D e in contemporanea fare i conti con tutti i problemi quotidiani a cominciare dalle relazioni sentimentali, invidie, rancori e discriminazioni fino a toccare problemi sociali e politici. Un’analisi profonda che mette in risalto soprattutto il delicato mestiere dell’insegnante che ha in qualche modo la responsabilità di creare gli uomini del domani.

Il pubblico è divertito davanti alla spontaneità e alla leggerezza di questo spettacolo che paradossalmente trasforma in modo esilarante momenti catastrofici e situazioni tragiche. Sarà in scena al Teatro Quirino fino al 10 aprile per poi continuare l'avventura in altre città italiane.

Si riconoscono subito gli attori di Filippo Gili, già dai primi passi, dalle espressioni poi e, infine, dalla parole: la voce segue una ritmica che scandisce un tempo ben definito - a cui si lega ogni movimento - quasi a comporre una musica. Ci sono familiari anche le sue scene che riproducono spesso un ambiente calorosamente domestico lasciando un ruolo rilevante alle luci - spiragli di speranza o possibilità in un buio che predomina sullo spazio scenico - che intervallano i movimenti degli attori creando un'atmosfera molto forte che trascina e coinvolge vorticosamente e progressivamente l'attenzione e l'emotività dello spettatore.

Gli interni e gli esterni di Anton Checov in Zio Vanja confluiscono qui in una scenografia unica che comprende tutta la sala del Teatro Argot Studio includendo anche lo spazio adiacente ad essa, da dove arrivano voci che permettono allo spettatore di immaginare i dialoghi non rappresentati. La scena, come dicevamo, è un ambiente caldo e familiare: un tavolo, un divano e una credenza. I personaggi sono di un numero inferiore rispetto al testo originale ma racchiudono - e in qualche modo rappresentano - anche l’essenza di quelli mancanti. Il pubblico è molto vicino alla scena e quasi se ne sente partecipe.

Si comincia in silenzio, un silenzio che si ripeterà spesso e che paradossalmente diventa assordante per quanto è profondo e significativo. Si parla dell’amore ricordato e non vissuto, di passioni impossibili, della malattia e dell’età che avanza, del rimpianto del passato.

Come nell’opera di Cechov, le situazioni si intrecciano dimostrando solo una necessità estrema di far ritorno allo stato iniziale senza uno sviluppo o un progresso reali e, inoltre, una incapacità assoluta di voler essere realmente felici. I personaggi sono adagiati nell’ozio e inebriati dall’alcol, chiusi in una staticità senza alcuna via d’uscita. Il tempo passa e loro vivono privi di sentimenti e di desideri di cambiamento: una sorta di prigionia da cui tutti potrebbero uscire ma non vogliono. Sonja  - Emanuela Rimoldi - vive con lo zio Vanja - interpretato da uno straordinario Paolo Giovannucci - nella tenuta di famiglia e portano avanti i lavori agricoli. La loro routine viene interrotta dal padre di Sonja, il professor Serebrjakov - il grande Ermanno De Biagi - e dalla sua seconda e giovanissima moglie Elena - Chiara Tomarelli - che portano scompiglio e malumore fino a una situazione estrema che si risolverà solo con un ritorno all’ordine prestabilito. Vengono travolti da questa situazione anche il dottor Astrov  - Alessandro Federico - e il povero e ingenuo Telegin - interpretato da un divertentissimo Matteo Quinzi.

Zio Vanja, dopo Il Gabbiano e Le tre sorelle, completa Il Sistema Cechov, un progetto di Uffici Teatrali – Argot Produzioni e fino al 10 aprile sarà in scena al Teatro Argot Studio. Andate a vederlo, Gili vi riempie l’anima.

 

Marianna Zito

Foto di Fabio Lovino

Il Teatro Brancaccio di Roma ha ospitato per due serate - 22 e 23 marzo - la compagnia slovena OPERABALET MARIBOR con il balletto Radio & Juliet

Radio & Juliet nasce dall’incontro di poesia e letteratura, di danza e musica. La più famosa storia d’amore di Shakespeare si scardina dal suo contesto tradizionale per arrivare alla meccanizzazione che caratterizza i nostri giorni ed entrare nelle tematiche più attuali di sogni, amori e passioni, soprattutto grazie alle musiche rock dei Radiohead. Da qui il titolo, a sottolineare questo legame, questa alchimia tra una generazione nuove e la classicità di un’opera della seconda metà del ‘500.

Il coreografo e ballerino Edward Clug esprime questa meccanicità moderna attraverso i testi scelti dagli album OK Computer e Kid A che accompagnano i movimenti scattanti dei ballerini quasi alienati e in preda ai propri conflitti interiori mentre, allo stesso tempo, ci troviamo di fronte una Krizman Juliet leggera, sensuale e seducente che simboleggia la disperazione di tutti gli amori incompiuti.

La drammaturgia shakespeariana si evolve e si trasforma per riproporci la storia da un’altra prospettiva, dalla mente e dall’animo di Giulietta. Nel filmato in bianco e nero di Gregor Mendas - che precede e intervalla l’opera - scorrono le immagini di questo viaggio introspettivo: Giulietta si sveglia su un letto - come da un lungo sonno - e ricorda tutti gli avvenimenti che la portarono al sonno, alla morte. Ogni scena, quindi, è rielaborata dalla memoria di Giulietta - quasi immobile davanti al suo irrealizzato amore.    Assistiamo ai conflitti violenti tra i giovani delle due famiglie, al ballo mascherato e al matrimonio tra i due amanti. Il tempo scorre velocemente mentre si rievocano queste vicende di lotte e di turbolenti amori. Infine - diversamente dal testo originale - non è un veleno a uccidere Romeo ma un limone. E Giulietta? Cosa farà Giulietta?

Il finale ci lascia attoniti e incompiuti, quasi in attesa di qualcosa – di una risposta forse – che tarda ad arrivare. 

 

Marianna Zito

È in corso - e durerà fino a stasera 20 marzo - il Festival Nuvola Creativa Grammelot al MACRO  il Museo di Arte Contemporanea di Roma in Testaccio allo Spazio Factory La Pelanda, a cura di Antonietta Campilongo.

Il nome della manifestazione prende spunto dal linguaggio teatrale usato nel teatro di Dario Fo - il GRAMMELOT, appunto -   che utilizza nella recitazione i suoni onomatopeici dando maggiore espressione e musicalità alla storia narrata e facendo proprie parole inventate, suoni idiomatici, segni e gestualità. È una tradizione teatrale presente già nella Commedia dell’Arte e che già allora rendeva gli spettatori partecipi della rappresentazione.

Nonni e bambini - Dario Fo

 

Come nel teatro, anche l’arte visiva – dall’Arte d’avanguardia alla Pop Art - ha creato una tipologia di grammelot iconico, rendendo i segni un vero e proprio linguaggio di comunicazione da una parte all'altra del mondo, pensiamo ad esempio ai graffiti.

  

NOSTRA SIGNORA DEI NAUFRAGHI - Antonio Conte -

 

I destinatari di questi nuovi segni sono i migranti, i figli di immigrati che sono nati e vivono in paesi nuovi. L’IMMIGRAZIONE è una emergenza che tutti devono considerare e concretizzare e viene qui donata al pubblico attraverso le più svariate forme artistiche.Sono questi dei cambiamenti che portano la presenza di un Nuovo che va quasi a contaminare il Vecchio esistente. L’arte riproduce quindi il declino del mondo e le sue trasformazioni sia economiche sia simboliche soffermandosi sulla sofferenza delle masse, sulle fragilità umane, sulle difficoltà e sul desiderio di vivere, e soprattutto sulla bellezza. 

Marianna Zito

Un’intera partita di calcio con tutti i suoi retroscena, interpretata in un monologo a più voci – a distanza di 10 anni dalla prima apparizione della Compagnia Biancofango – da Andrea Trapani al Teatro dell’Orologio.                                                                           In punta di piedi è una storia narrata da una panchina e da una striscia di gesso – a terra – che segna il confine con il campo da calcio - la fascia - ma che rappresenta altresì il confine tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, tra il bambino di prima e l’uomo di poi.

Siamo negli anni ’80, gli anni in cui forse il gioco del calcio rappresentava una passione vera, una unione che non lasciava ancora intravedere l’appassimento che avrebbe subìto poi nel futuro più prossimo di quegli anni, i nostri.                                                     Un allenatore dall’accento toscano indica e sceglie tra il pubblico i giovani calciatori che formeranno la sua squadra. Il suo sguardo è così intenso che quasi lo spettatore si vorrebbe alzare - sentendosi interpellato - per andare a giocarla proprio lui quella partita che, dall'accento del protagonista, ben si capisce sarà giocata a Firenze, di domenica.

Con tuta  e scarpe da ginnastica un Andrea Trapani - sempre più sudato - ci delizia con palleggi e tiri, nemmeno ci fosse davvero lì sul palcoscenico quel pallone. Diventa poi Mastino, un adolescente - amante di quel gioco - che, in quella domenica pomeriggio, quella partita la guarda dalla panchina. Le abilità di Mastino non sono ad alti livelli come quelle dei suoi compagni di squadra e sarà quindi costretto a guardare le "varie prestazioni" in disparte, dal di fuori - a sentirsi quasi un inetto - sognando non solo di essere un campione ma anche l’amore di una ballerina e l'orgoglio di un padre.  La vita gli scorre davanti rendendolo solo spettatore, proprio lì dove Mastino vorrebbe essere un grande protagonista: decide così di giocare la sua partita.

In punta di piedi è il primo episodio della Trilogia dell’inettitudine, realizzata da Andrea Trapani e Francesca Macrì. Sarà in scena al Teatro dell’Orologio di Roma fino a domenica 20 marzo.

 

Marianna Zito

Foto di Manuela Giusto

J'ai tendu des cordes de clocher à clocher;

 des guirlandes de fenêtre à fenêtre,

 des chaînes d'or d'étoile à étoile, et je danse.

- Arthur Rimbaud -

 

Il Brancaccino di Roma e Khora Teatro presentano COSTELLAZIONI, lo spettacolo di Nick Payne diretto da Silvio Peroni.

Una strada di luci - le stelle - avvolgono dall’alto tutto il palcoscenico completamente vuoto e sembrano dirigere i movimenti dei due protagonisti - Jacopo Venturiero e Aurora Peres - ma non solo, sono proprio queste stelle (di Valerio Tiberi) a bloccare la sequenza di ogni scena e a riaprirla agli occhi dello spettatore, accompagnate da boati che quasi ne delimitano il raggio di luce.

 

Orlando e Marianna si incontrano, si conoscono e si frequentano in varie realtà A ogni loro azione è legata una conseguenza che delineerà le loro vite, come le nostre. Lui, dal carattere mite e socievole, è un apicolture mentre lei, brillante e simpatica, lavora nel campo della cosmologia quantistica. Ogni flash di luce rappresenta una reazione diversa in un determinato momento, con un determinato lato caratteriale o uno specifico linguaggio, che porterà a una determinata vita. E i due protagonisti riescono perfettamente nel loro scopo, tanto che lo stato d’animo di chi li guarda diventa altalenante nel seguire ogni loro gesto e passando da una sonora risata a un angoscioso e triste stato di attesa. E quindi scene -  a volte speculari - a narrare l’entusiasmo di un incontro, la passione, il dolore di una malattia, la morte, i tradimenti, la gioia di un ritorno. Fino a ritrovarsi in una danza, per sempre o mai più.

Questo è anche quanto ci viene detto da una materia che è alla base di tutte le nostre conoscenze che è, appunto, la fisica quantistica. Ne nasce una storia d’amore raccontata attraverso la teoria del caos che analizza il tempo, lo spazio e le vie dei mondi paralleli, lì dove basta una parola per avere la possibilità di scegliere, di cambiare strada e quindi il proprio destino. Ed è proprio dal caos che questa storia comincia per poi delinearsi piano piano per raggiungere, solo alla fine, il suo completo significato.

Uno sforzo di magistrale bravura e concentrazione quello di Venturiero e della Peres che si trovano a gestire - solo con l’aiuto dei loro corpi e delle loro voci - una moltitudine di scene brevi e con ritmi differenti, dove il ruolo dominante si concentra tutto sull’attore stesso. Vi aspettano fino a domenica 19 marzo al Teatro Brancaccino di Roma!

 

Marianna Zito

Ha debuttato ieri al Teatro dell’Orologio il nuovo lavoro della giovane compagnia siciliana Vuccirìa Teatro. Lo spettacolo comincia con un’atmosfera soffusa e intensa. Mentre gli spettatori prendono posto, la scena è già in movimento al di fuori del palcoscenico: una divinità coperta di fango mangia e beve lentamente, su un lato della platea, mentre man mano cominciano profonde riflessioni sulla fine dell’esistenza. Dalle guance dell’attore scorrono lacrime di rassegnazione e forte sofferenza legate all’infelicità innata a cui è sottoposto il genere umano, che ha come scopo ultimo la morte. Quindi che cos’è la vita se non una preparazione a quello che sarà il passaggio finale? Cosa facciamo oltre a preparare col tempo la nostra stessa tomba? La tematica è nobile e l’atmosfera ha qualcosa di profondamente surreale e, allo stesso tempo, tetro.

Il palcoscenico - con pozze d’acqua - si apre piano per lasciare spazio a un delirio incomprensibile di urla e movimenti senza una reale logica. Una scenografia - studiata  accuratamente - accoglie uno schermo su cui scorrono parole bibliche e non. Dovrebbe - credo - voler raccontare l’assenza di dio, la fine del genere umano e da troppo tempo dell’amore, la sola esistenza della natura e la solitudine di due creature uniche sopravvissute - un uomo e una donna - incapaci al suicidio. Sono indecise se abbandonarsi alla nostalgia di ciò che li apparteneva in vita, se abbandonarsi a questa nuova non vita che ora sono costretti ad affrontare o, addirittura, a valutare la possibilità di rigenerare e di raffigurarsi come nuovo inizio. Alle loro spalle, oltre alle parole a video, un Cristo effeminato - che ci ricorda (come anche nella locandina di presentazione) l’Erode di Bene nella Salomè - a sproloquiare, forse, sulla vita, sulla morte e sull’oblio.

Ci troviamo di fronte a una sorta di esperimento poetico che vuole scavare le essenze viscerali dell’essere e dell’io ma che non ne possiede, a mio avviso, la leggerezza né nei gesti né nel linguaggio. Mi viene da pensare, ad esempio, alle performance di Ilaria Drago che analizza le inquietudini e le urla sì, ma in modo sommesso, arrivando all’animo e lacerando, generando un folle dramma interiore che passa dallo spirito dell’artista a quello dello spettatore.
Forse è questo ciò che mi aspettavo da Yesus Christo Vogue. Qui rimane tutto in superficie a regalarci nudi gratuiti e prevedibili che potrebbero richiamare in qualche modo alla mente qualcuno dei grandi capolavori pasoliniani oppure, perché no - spostandoci sulle arti visive e figurative - alle opere di Frida Kahlo, penso nel particolare a La mia balia e io oppure semplicemente al simbolismo della Grande Madre Terra che accoglie sul suo grembo e nutre l’umanità. Non sono stata in grado di cogliere ulteriori sfumature, forse ve ne erano troppe o troppo poche.

Yesus Christo Vogue - scritto e diretto da Joele Anastasi, con Joele Anastasi, Enrico Sortino e Federica Carruba Toscano - sarà in scena al Teatro dell’Orologio di Roma fino al 26 marzo.

 

Marianna Zito

Ufficialmente autorizzato dalla famiglia Fo, supportato dal Lantern Theatre di Liverpool, dall’Università di Chester, dal Coffi Italian Film Festival di Berlino e da Jonica Tv arriva in Italia lo spettacolo FRANCA - Anima e Arte di Franca Rame scritto e interpretato dall’attrice lucana Roberta Laguardia.

Dopo molti studi sul personaggio, l’artista lucana porta in scena la figura di questa donna non solo emblema - insieme al marito - del teatro del ‘900 ma attiva sulla scena sia civile sia politica del nostro paese e - non dimentichiamolo - vittima di violenze fisiche e psichiche ancora presenti nel nostro vivere quotidiano. E poi la sua bellezza e la sua indipendenza, la poesia e l’amore. Ne emerge un desiderio di cambiamento, di affermazione ovviamente sociale, politico ma soprattutto nella totalità soggettiva e oggettiva dell’essere donna.

 

Dopo Liverpool, Chester e Manchester lo spettacolo di Roberta Laguardia ha debuttato sabato 12 marzo a Matera, la Città Capitale Europea della Cultura 2019, nella regione natìa dell’attrice protagonista che si è occupata anche della riscrittura dei testi da portare in scena: monologhi interpretati già dalla stessa Franca Rame e scritti, alcuni, con il marito Dario Fo. E proprio a Matera lo spettacolo è stato introdotto all’interno della conferenza stampa in cui è stato presentato il Comitato Donne 2019, un’iniziativa promossa dall’A.I.D.E – Associazione Indipendente Donne Europee che hanno accolto a pieno nel loro gruppo Roberta Laguardia perché grazie alla propria arte “ha saputo interpretare con fedele profondità e spessore una delle figure più carismatiche e avanguardiste del teatro novecentesco, facendosi portatrice di un messaggio forte contro la violenza sulle donne.”

Lo spettacolo mira ad essere rappresentato nei circuiti indipendenti, come è successo per lo IAC - Centro Arti Integrate di Matera e come succederà per Modena il 25 e il 26 marzo al Cajka - Teatro d’Avanguardia Popolare, dove - secondo la protagonista Roberta Laguardia - si nasconde l’essenza della vera arte, un modo innovativo di intendere la cultura e che rientra nel criterio utilizzato dall’artista nel creare il suo gruppo, il suo collettivo di Realisti Visionari, composto da figure che vivono oltre il conformismo ma che preferiscono performance di impatto che puntano soprattutto sull’emotività di chi li guarda.

Marianna Zito

Foto di Paolo De Novi

Cosa vuol dire essere il “il numero uno”? Quanto conta per l’uomo arrivare ad avere uno status socialmente riconosciuto? Si basa tutto sull’apparenza oppure bisogna avere il coraggio di accettarsi per ciò che si è? Queste le domande che nascono dall’opera di Arthur Miller - Morte di un commesso viaggiatore - portata in scena dal regista e protagonista Elio De Capitani e dalla sua squadra di eccellenti attori al Teatro Storchi di Modena fino a domenica 13 marzo.

De Capitani interpreta il ruolo di Willy Leman mostrandoci un uomo che ha costruito la sua vita su una serie di illusioni, un piccolo borghese americano degli anni ’50 che per vivere fa il commesso viaggiatore e che, plasmato dall’alchimia dei valori della società consumistica, si affanna a diventare qualcuno, a crearsi una posizione sociale. Gli stessi valori trasmette ai figli che crescono con l’illusione di essere dei campioni, termine con il quale si rivolge al figlio Biff che crede di poter andare all’Università solo grazie alla sua popolarità e sfoderando il suo più bel sorriso. Lo stesso vale per il figlio Happy, sempre alla ricerca di altre forti emozioni. Questo castello di sabbia creato da Willy Leman è però destinato a sgretolarsi presto.

De Capitani, interpretando magistralmente le emozioni umane, ci mostra - come lo stesso Miller - questa battaglia interiore del protagonista: da un lato la sua continua lotta per mantenere viva la menzogna di una dignità lavorativa, di far credere di essere ancora in corsa verso il successo e dall’altro la disperazione di un uomo che sente di aver fallito nella vita.

Tra le rimembranze oniriche, sapientemente messe in scena con un’atmosfera di giochi di luci soffuse, sono riportate alla memoria eventi di vita passata che possono aiutare a individuare l’errore: quella scelta di vita che ha poi condotto il protagonista al tracollo. Si palesano man mano quelle che erano solo rappresentazioni illusorie della realtà che causano inevitabilmente senso di vuoto e smarrimento.

Nonostante Morte di un commesso viaggiatore risalga agli anni ’50 il tema affrontato è, di fatto, attuale poiché si parla dell’apparire, concetto familiare alla società di oggi, delle difficoltà di affrontare gli sbandamenti e di accettarsi per ciò che si è, lo strazio dell’invecchiamento, di uno scomodo bilancio delle colpe e degli errori. Assolutamente da non perdere!

Marianna Tota

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