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His soul swooned slowly as he heard the snow falling faintly through the universe and faintly falling, like the descent of their last end, upon all the living and the dead.

 

L’opera di Joyce diventa il contenitore di uno spettacolo che racchiude le caratteristiche teatrali tradizionali e l’impronta filmica tipica di Giancarlo Sepe. Dopo essere stata presenteta in due parti al Festival dei Due Mondi di Spoleto, The Dubliners di Sepe - nello specifico Ivy Day e The Dead - arriva a Roma al Teatro La Comunità in un’unica versione, grazie alla produzione della Compagnia Orsini.

L’atmosfera è coinvolgente e spiazzante, sin dall’inizio, grazie alla scenografia tombale che vede al centro del palcoscenico un tavolo con innumerevoli crisantemi di vari colori. Gli attori - della Compagnia del Teatro La Comunità - sono disposti attorno a questo giardino funebre, a terra e immobili. E sullo sfondo sagome, a rappresentare una staticità oramai solo da idolatrare. Lo spettatore può anche decidere di seguire la rappresentazione sulla scena stessa, nei quattro lati, vicino agli attori. Improvvisamente nel buio - tra lampi di luci e rumori e tuoni - si comincia. La paralisi sociale, la necessità e il fallimento della fuga sono i temi cardine narrati attraverso le zone d’ombra, dove i vivi e i morti si incontrano e si confondono per palesare la sofferenza sociale di un popolo, nello specifico quello appartenente a una Dublino dei primi anni del ‘900.

Personaggi sterili, donne e uomini angosciati e incapaci di arrivare alla salvezza intenti a condurre vite viziose e angustiate, mascherate con atteggiamenti ipocriti e decadenti di esistenze schiave delle abitudini quotidiane, incastonate in un tempo che trascorre immobile. Una vera e propria paralisi spirituale legata ai vizi e all’angoscia del passato, mentre una consapevole ricerca di identità - che possa abbattere le tensioni sociali e politiche - continua a girare su se stessa senza mostrare mai la luce.


Un’analisi, quella di Sepe, che si sviluppa attraverso il canto e i movimenti statici dei personaggi - fantocci dai volti funerei di morte - che sono sopraffatti da tremolii isterici ma che in realtà non li conducono in nessun luogo se non nell’aridità dei loro animi e delle loro convinzioni. I corpi man mano si ricompongono per riprodurre le attività e i gesti di una vita passata o ipotizzata o semplicemente desiderata e per improvvisarsi in balli frenetici o in canti tradizionali di guerra. I dialoghi sono espressioni in lingua originale facilmente comprensibili, perché scandite e sottintese nei gesti stessi.

Mentre, seduto comodamente sulla sua sedia, un Lord inglese – interpretato da un coinvolgente Pino Tufillaro – osserva sornione questo scenario disgustoso sorseggiando il suo tè. Assolutamente da vedere!

Marianna Zito

Foto di Matteo Nardone

"Souvent, pour s'amuser, les hommes d'équipage
Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
Qui suivent, indolents compagnons de voyage,
Le navire glissant sur les gouffres amers..."

L'albatros - Charles Baudelaire -

 

Attraverso gli occhi delle donne che Modigliani ha amato - e da cui si è lasciato amare – prende vita la storia scritta e diretta da Angelo Longoni: quasi un sogno che si sviluppa come un passaggio di testimone da una donna all’altra che, con passione e dolcezza, si prendono cura di questa figura trasandata, di questo giovane ebreo e italiano, borghese e testardo - terrorizzato dalla realtà e in balìa della “fata verde” e dell’oppio - accompagnandolo nella vita quotidiana e artistica. La vie maudit coinvolge Modigliani – interpretato dalla presenza piacevole e piacente di Marco Bocci - schiavo delle proprie ossessioni e delle visioni fatte soprattutto di colori.

Se solo potessi dormire, se solo non avessi tutti questi colori in testa”.

La sfrontatezza di Kiki de Montparnasse, la poesia veggente dell’incantevole russa Anna Achmatova,  la determinazione di Beatrice Hastings (interpretata da Romina Mondello)  e la giovanissima e amata Jeanne Hébuterne lasciano un segno nella vita dell’artista, così come lo lasceranno nei suoi quadri, di cui saranno muse ispiratrici e non solo. Stessi quadri e stessi lunghi colli affusolati che vediamo scorrere davanti ai nostri occhi - sul palcoscenico - e che riempiono l’intero teatro di luce e di tenui colori, insieme a proiezioni di paesaggi, di luoghi e di avvenimenti dell’epoca - come la guerra - creando un’atmosfera coinvolgente e avvolgente, anche grazie alle musiche di Ryuichi Sakamoto.

Il palcoscenico offre - in alternanza - ambienti esterni e interni che si materializzano da una parte o dall’altra di una parete che cade “a pioggia” sulla scena. Gli esterni sono nitidi e chiari ai nostri occhi mentre gli interni mostrano una intimità più offuscata e segreta, lasciando una sensazione ovattata e una visuale un po’ faticosa da seguire per lo spettatore.

Un’immersione nel centro dell’arte europea d’avanguardia, nella bellezza della Parigi bohémienne dei primi anni del ‘900, un tuffo nel quartiere di Montparnasse, il “quartiere di pazzoidi” - come lo definiva Apollinaire -  nei bistrot e tra i boulevard frequentati altresì dalle più geniali menti di quegli anni d’oro, tra cui Gertrude Stein, Hemingway, Cocteau, Ezra Pound, i Fitzgerald e i pittori Picasso, Rivera, Utrillo, Soutine, lo stesso Modigliani e tanti altri ancora. Questi folli e dannati anni parigini riescono a liberare i dolori e le angosce  degli artisti maudits che si preparavano a dare vita a quelli che sono i capolavori di oggi.

A tratti ironico, intriso di maliziosi doppi sensi mai volgari. Soprattutto se amate Modì, ricordatevi che il Teatro Quirino ospiterà il suo rifugio bohémienne - tra dipinti, sculture e fiori - fino al 20 marzo.

 

Marianna Zito

Foto di Marina Alessi

Ognuno di noi “prima di andar via dovrebbe salutare le persone che ama. Soprattutto se la scelta è quella di non tornare più. È ovvio che chi abbiamo di fronte, chi ci ama appunto, difficilmente sarà in grado di accettare serenamente questa consapevolezza.“Come si reagisce alla decisione di un uomo di mettere fine alla propria vita?”. È più importante rispettare chi abbiamo vicino o agire egoisticamente di impulso? Le risposte non esistono, se non una magra spiegazione di voler evitare dolori sbagliati. Ma esistono dolori giusti e dolori sbagliati? Si narra, qui, una morte cara alla letteratura e ai miti: la morte per acqua - l’acqua che è al contempo principio, divenire e fine - che lo spettatore può solamente immaginare o ipotizzare.

Lo spazio scenico è ampio e la panoramica è a 360 gradi. Filippo Gili e Francesco Frangipane aprono con al centro una tavola apparecchiata - come negli altri lavori della trilogia ospitati sempre al Teatro dell’Orologio di Roma - dove una famiglia vive la quotidianità di una cena e del loro solido legame, fino a quando dal nulla arriva la tragedia o la decisione che cambierà la vita a tutti e il destino di uno di loro.

Un dolore non condivisibile quello di Francesco – interpretato dallo stesso Gili - un peso che porta alla lacerazione e all’annullamento di sé dove, alla prospettiva di una salvezza, si sostituisce la scelta irrevocabile di non volere arrendersi a digerire il presente, la vita. Una fuga senza ritorno a creare una sola pace ma a destabilizzarne altre. Forte l’amore incondizionato, ma non determinante per la salvezza. Un vis à vis tra tutti i personaggi (Silvia Benvenuto, Ermanno De Biagi, Michela Martini, Aurora Perese e Filippo Gili) che, nell’arco di una sola notte, mettono a nudo paure, sentimenti e frustrazioni. Buio, silenzio e battiti accompagnano lo spettatore che rimane inchiodato al proprio posto e ai propri sussulti, dall'inizio alla fine.

 

Marianna Zito

Foto di Manuela Giusto

 

L'universo, per lui, finiva all'orlo di seta della sua sottana. 

- Gustave Flaubert -

 

Se pensate che la Emma di Flaubert non possa essere rappresentata a teatro con la stessa angoscia e la stessa frustrazione che fuoriescono dalle pagine del romanzo vi sbagliate. Perché Lucia Lavia ci riesce fin troppo bene. I suoi monologhi e le sue preghiere agghiaccianti diventano i pilastri di uno spettacolo lungo e accattivante, pieno di sentimentalismi e passioni roventi, proprio come il romanzo dello scrittore francese. L’isteria che colpisce una donna insoddisfatta, annoiata e triste viene urlata dalla protagonista che travolge il pubblico con tutta la sua forza e le sue espressioni così determinate da disegnarsela in faccia, quella rabbia. 

Comincia tutto su un palcoscenico con alcune sedie e a terra, al centro, un vestito bianco. Ma le scene si svilupperanno anche su di una struttura verticale per espandersi poi verso la platea.                                                                                                    Andrea Baracco costruisce così il suo spettacolo, quasi fosse ogni cosa il pezzo di una scatola ad ingranaggi. Ritroviamo, quindi, davanti ai nostri occhi personaggi armoniosi e situati sempre nel posto giusto e al momento giusto, come a creare una sorta di equilibrio.

Charles è esattamente lo Charles che ricordiamo. Lino Musella veste i panni del giovane e umile medico, inebetito d’amore dalla testa ai piedi, un finto ingenuo che si lascia scorrere la vita addosso, senza rancore. Rilevanti le performance di Lheureux - Elisa di Eusanio - e di Hyppolite - Laurence Mazzoni. E poi c’è lei, Berth. La figlia di Emma e Charles, la creatura che non può fare nient’altro che subire gli umori e i dissapori e trovare riparo solo tra le braccia dell’amato padre. I suoi movimenti solo lenti, di bambola. Sarà forse una bambola? No, sembra di più un burattino…qualcuno - Roberta Zanardo - guida i suoi piccoli movimenti innocui e innocenti.

La riscrittura - con sfumature ironiche - di Letizia Russo segue il testo originale e ci narra i desideri repressi della donna che cerca conforto negli amori frivoli e bugiardi di individui sconosciuti e la voglia di ricchezza e agiatezza che allontanano Emma dalla felicità familiare, logorandola fino alla morte. Al Teatro Piccolo Eliseo di Roma fino al 6 marzo. Assolutamente da vedere.

Marianna Zito

Direttamente dal debutto al Festival dei due Mondi di Spoleto arriva - fino al 6 marzo al Teatro Quirino di Roma - I DUELLANTI di Joseph Conrad con la regia di Alessio Boni e Roberto Aldorasi.

In una scena piena di oggetti che, all’occorrenza, riempiono ambienti interni o ambienti esterni, i due ussari di Conrad interpretati da Alessio Boni e Marcello Prayer - rispettivamente l’altolocato e razionale D’Hubert e il sempliciotto impulsivo, dall’accento meridionale, Feraud - portano in scena per la prima volta la ventennale sfida - derivante da futili motivi - che caratterizza la loro esistenza fatta di battaglie, nella Grande Armée napoleonica dei primi anni dell’800.

Ma qual è la causa? Sembra quasi una lotta cominciata in un’altra vita, un atto di fedeltà più che di rabbia o ripicca che si trasforma in uno dei più lunghi duelli della storia. Non si uccidono mai, quasi per dare sempre un’altra possibilità al nemico. Nasce tra loro una sorta di intimo sodalizio che prescinde dalle note leggi amicali ma che li porta a non poter più fare a meno della presenza reciproca, nonostante la loro vicinanza potrebbe portarli alla morte. Si allontanano per poi ritrovarsi successivamente fino al duello finale che li rivestirà di ruoli ben definiti. L’unico reale obiettivo è il duello interiore - la sfida dell’Io - che si materializza con la necessità di un avversario, un duellante davanti ai propri occhi. Ed è proprio la stoccata finale -nella vita - ad affermare noi stessi, a renderci liberi.

In un'atmosfera intensa e a tratti divertente, si attuano velocemente interessanti cambi di costume che permettono ai due protagonisti di interpretare in modo magistrale più ruoli. Prendono vita, in questo modo, una serie di scene sovrapposte in cui i personaggi speculari si trovano addirittura a raccogliere oggetti usati nella narrazione parellela, stimolando il susseguirsi di scene sempre più intriganti e animose. Il pubblico è inchiodato al palcoscenico come fosse davanti a scene filmiche di duelli e sciabolate, esemplare la lotta a rallentatore, con monologhi intensi e alternati rivolti al pubblico - in una scenografia di luci e ombre - in cui viene narrata la campagna napoleonica in Russia. Le musiche di Luca D’Alberto, il violoncello di Federica Vecchio e il buio accompagnano questa versione teatrale molto vicina al testo letterario di Conrad e alle tecniche di combattimento del tempo.

 

                                                                                                               Marianna Zito

 

 

Si è conclusa domenica l’iniziativa del Gruppo della Creta - con la regia di Sergio Basile – dedicata alla figura di Pier Paolo Pasolini, all'interno del Festival Labirinto al Teatro Furio Camillo di Roma.  

L’ultima serata UNA S(T)ONATA PER LAURA E PIER PAOLO ha voluto analizzare da vicino il poeta attraverso gli occhi di una persona molto legata a lui, l’attrice Laura Betti. Un amore viscerale, estremo e impossibile che ha continuato ad ardere dentro di lei anche dopo la morte di Pasolini. Una ossessione di cui rivendica la totale appartenenza sentendosi l’unica al mondo in grado di aver compreso la sua personalità e le sue opere.

“…E la prova più certa  che Laura avesse davvero amato P.P.P., fino ai limiti delle sue possibilità di amare, poco o nulla ricevendo in cambio, stava proprio in quella sensazione, nuda e precisa come un referto scientifico, di non esistere.  Non c’è forse, tra tutti i dolori che la vita ci costringe a sopportare, un dolore più grande di questo:  amare qualcuno più di se stessi, e godere, fino a un certo limite, della sua presenza – e nello stesso tempo, capire che quell’essere amato, proprio mentre è lì con noi, in carne ed ossa, e divide il suo tempo con noi, in realtà appartiene solo al suo destino che già, mentre siamo sicuri di stringerlo a noi, lo porta lontano. Perché la sua storia, per quanti sforzi possiamo fare, non è la nostra e non lo sarà mai.”

Emanuele Trevi – QUALCOSA DI SCRITTO 

La stessa Elena Fanucci, nel suo testo, ci racconta come Laura Betti diventa determinante nella vita romana di Pier Paolo Pasolini e di come lo accompagnerà fino alla fine delineando sia una vicinanza artistica sia affettiva.                                               Il palcoscenico è pieno di pagine di quotidiani accartocciati e di oggetti usurati. Al centro solo una grande croce su cui giace un corpo esanime, ricoperto di sangue. Accanto al corpo c’è una donna velata inginocchiata, come Maria sul Golgota ai piedi di Cristo. La donna è Laura Betti,  interpretata da una intensa Giulia Modica, che - tra gocce d’acqua e vento - ripercorre tutto la sua passione per quest’uomo impossibile - un caustico Alessio Esposito - a partire dal loro primo incontro in cui rimase affascinata, in un modo quasi magnetico, da quell’uomo taciturno e con indosso degli occhiali scuri che se ne stava seduto in un angolo ad osservare il mondo. La protagonista quindi è proprio la Betti, una figura che si allontana dalla realtà e che sopravvive grazie alla superficialità e alla frivolezza e che, quasi per necessita, si incontra e scontra con la poesia di Pasolini.                                                                                     

I due attori in scena, infatti, danzano quasi senza nemmeno toccarsi, si sfiorano, in una atmosfera emotivamente lacerante e intensa. L’unico ed estremo contatto fisico avviene solo quando il corpo senza vita dell’uomo è adagiato su quello della donna ricreando la Deposizione di Pontormo, immagine cardine de La Ricotta pasoliniana. (Ro.Go.Pag., 1963)

Uno studio profondo e sicuramente significativo - intorno alla figura del poeta friulano - quello dei giovani attori della Compagnia della Creta che ci auguriamo continuerà ad emozionarci e a stimolarci in tanti altri incontri e spettacoli futuri. 

 

Redazione Modulazioni Temporali

 

 

Maria Angulema è pronta a lasciare Orvieto e a intraprendere il viaggio che la porterà verso Lourdes. Con indosso le sole mutande si ritrova poi, improvvisamente, nei panni di dama di carità e alle prese - durante le varie tappe del viaggio - con tanti e strambi personaggi, tutti in attesa e speranzosi in un miracolo.

Con un caratteristico accento umbro, Andrea Cosentino dà magicamente voce al dolore attraverso una sfilza di preghiere e nenie che aprono, negli occhi della mente dello spettatore, situazioni ridicole e tragicomiche. Solo dopo un lungo flashback si ritornerà alla scena iniziale, una immersione miracolosa e purificatrice. Essendo, lo spettacolo, ispirato all'omonimo romanzo di Rosa Matteucci (Lourdes - Adelphi, 1998), la sfida maggiore è quella di portare sulla bocca di un uomo le parole di una donna - intrise di sentimenti di paura, insicurezza e sdegno -  e a Cosentino riesce magistralmente bene. Un viaggio tra miscredenza e riappropriazione della fede, in cui l’obiettivo principale della protagonista è chiedere al Padreterno il motivo della morte inutile di suo padre in un incidente stradale ma, inaspettatamente, proprio a Lourdes le capita anche di innamorarsi.

L’adattamento e la regia sono di Luca Ricci, la meravigliosa voce dal vivo è quella di Danila Massimi (componente della compagnia poetica di Ilaria Drago) che - accarezzando i suoi strumenti a percussione - accompagna le parole di Cosentino creando un’atmosfera surreale nella piccola Sala Gassman del Teatro dell’Orologio.  

Lourds è vincitore de I Teatri del Sacro 2015 e sarà in scena fino al 28 febbraio dal martedì al sabato alle ore 20,00 e domenica alle ore 17,00. Non mancate!

 

Marianna Zito

Foto di Manuela Giusto

 

Chi butteresti dalla torre? Ecco l’interrogativo, la domanda, l’angoscia che puntualmente piomba nella vita nel momento in cui viene richiesta una scelta. Ancor peggio se a questa scelta segue una sentenza di morte: chiedere di scegliere la morte di uno o dell’altro genitore, a un figlio. A due, in questo caso.

 

 

Il dramma di Filippo Gili si apre su un ampio palcoscenico dove troviamo tutte le componenti per le varie scene: una tavola apparecchiata e pronta all’uso, l’intimità di un divano, la scrivania di uno studio medico. Al Teatro dell’Orologio – con la regia di Francesco Frangipane - la scena si svolge a 360 gradi e il pubblico può partecipare scegliendo l’angolatura che preferisce. Ogni posto ha l’inquadratura e una vicinanza maggiore ad un preciso tormento.

 

 

I quattro personaggi riempiono tutto lo spazio spostandosi da una scena all’altra grazie agli effetti delle luci e al buio. Buio che crea suspense e inquietudine in chi guarda. La normale e giocosa vita familiare si fa da parte all’arrivo di una malattia inaspettata. E qui la scelta: aspettare che si compia il destino o fare appello al libero arbitrio? Come rispettare la vita altrui davanti a un processo certo di morte? Come vivere, poi, le conseguenze di questa scelta?

 

La scrittura di Gili è cruda e diretta. Le parole dei suoi personaggi arrivano dritte all’animo della spettatore lasciandolo confuso, pensieroso. Sempre con una domanda a cui cercare una risposta. L’analisi sul binomio vita/morte è netta, l’una sconvolge l’altra e viceversa. Gili crea scompiglio nell’animo, difficile liberarsene e – una volta toccato – difficile farne a meno.

 

Teatro dell’Orologio di Roma

dal 16 al 21 febbraio

dal martedì al sabato ore 21.30 – domenica ore 18.30

 

 

Marianna Zito

 

Foto di Manuela Giusto

Perché questo terrore
che si erige davanti
al mio cuore rapito
e intorno gli vola cieco?
Perché, senza invito,
senza che nessuno lo paghi
il mio canto è profetico?
Perché mi è impossibile
liberarmi, come da visioni magiche
e sentire la sicurezza vitale
al centro del mio cuore?
 
ESCHILO - Orestea -
 

 

Sarà stato un caso – o forse no – ma l’ultima serata di ieri dedicata a Pier Paolo Pasolini dal Gruppo della Creta si è aperta con La Cattiva Strada di Fabrizio De Andrè, proprio nella data che ricorda la nascita del cantautore genovese.

Il gruppo della Creta è concepito con l'idea di un teatro sempre pronto al rinnovamento, a modellarsi - proprio come si fa con la creta - e vede come protagonisti un gruppo di giovani attori che - all’interno del Festival Teatrale Labirinto al Teatro Furio Camillo di Roma e guidati dal prof. Giancarlo Sammartano, da Luigi Mezzanotte (protagonista di Orgia) e dalla regia di Sergio Basile - hanno ripercorso le tappe della vita romana di Pasolini - partendo dall’indomani della sua morte - in Tre giovedì e una domenica.

 

Su di un palcoscenico ricoperto da carte di giornale si è innalzato il canto di libertà dei giovani attori che si sono presentati davanti al pubblico indossando “gli occhiali neri di Pasolini”, accompagnati da una chitarra e da una voce che ci ha fatto ascoltare diverse canzoni legate al poeta. E proprio attraverso i suoi scritti, questi giovani attori, ci hanno mostrato gli ultimi anni della sua vita fino alla tragica morte all’idroscalo di Ostia.

L’ultimo giovedì del percorso – il 18 febbraio – ha raccontato il poeta “da Sabaudia fino ad Ostia”. Sono gli anni ’60 e molte delle sue opere sono già compiute. Pasolini è al centro della vita letteraria italiana, collabora con Fellini, Bolognini, Bini, Rossellini, Godard, stanno nascendo i suoi primi film e nella sua vita ci sono personalità determinanti, come Laura Betti. Ha appena concluso Comizi d’amore e sta lavorando ad Accattone quando, commissionato da Gassman, si cimenta nel rivisitazione romanesca del Miles Gloriosus di Plauto a cui darà titolo Il Vantone, un testo popolare  che non verrà mai portato in scena perché troppo romanesco, appunto. Siamo nel 1963. È il periodo delle tragedie e del mito greco che sfocerà nell’opera che potremmo considerare il centro della poetica pasoliniana, Appunti per un’Orestiade Africana. È il periodo del disamore verso Roma.

Per completare la serata, il regista e attore teatrale  Federico Vigorito ha raccontato il suo Vantone, rappresentato al Festival dei due Mondi di Spoleto lo scorso anno, e che potremo vedere in scena a Roma nelle prime settimane di marzo. La discussione ha avuto luogo davanti a una macchina da scrivere con Sergio Basile e un ospite inaspettato alla serata: Ninetto Davoli che ha deliziato la platea con il Prologo, facendo lui stesso parte del cast del Vantone di Vigorito. Tre dei giovani attori non romani hanno improvvisato il testo in romanesco, divertendo ed emozionando. Il palcoscenico la casa di tutto questo.

Si è continuato con la poesia, con la Roma del ‘68 e la sua gioventù, si è arrivati a Petrolio dove si riavvicina a Roma, a Salò che gli si rivolta contro procurandogli minacce di morte. Poi la Torre di Chia e Sabaudia. Ultima tappa Ostia. La sua morte, la sua ultima solitudine, le sue nuvole. Ma cosa sono le nuvole (*)?

L’ultimo appuntamento è al Teatro Furio Camillo domenica alle ore 18.00 con la S(T)ONATA PER LAURA E PIER PAOLO.

                               

      Marianna Zito

 

(*) Cosa sono le nuvole è il testo cantato da Domenico Modugno nell'ononimo corto pasoliniano composto dallo stesso Pasolini che lo scrisse ispirandosi all'Otello di Shakespeare.

I quadri della pittrice messicana Frida Kahlo si materializzano a schermo sul palcoscenico riempiendo - come sempre - gli occhi di meraviglia. L’allestimento multimediale e le fotografie di scena si susseguono coinvolgendo e abbagliando l’intero pubblico, creando un’atmosfera di luce quasi surreale all’interno del Teatro della Cometa e definendo un legame tra l’arte che si ha intenzione di mostrare e il palcoscenico. 

L’intento di Alessandro Prete, Igor Maltagliati e Luca Setaccioli - in Frida Kahlo. Il ritratto di una donna - è che ogni quadro rappresenti una scena a raccontare o denunciare una storia. Le scene si susseguono e si interrompono in modo determinato, forse anche troppo, senza un vero filo logico a unirle con le successive ma solo con un suono di gocce d’acqua a scandire lo scorrere di ognuna, del tempo e della vita. Storie di donne, di quotidianità che si ripetono dal passato al presente in modo ciclico, come il rapporto conflittuale tra madre e figlia o una violenza fisica o un tradimento. Si vuole trasmettere al pubblico l’emozione, il turbamento e l’amore di Frida Kahlo attraverso le sue tele, ma l’ambizione è troppo grande per riuscire ad avere un culmine emotivo.

Lo spettacolo intrattiene con le varie e piacevoli musiche di Stefano Mainetti accompagnate dalla una danza decisa di Giulia Barbone e dalla presenza - in più vesti - della fin troppo bella Alessia Navarro. I personaggi si susseguono - in dialoghi e monologhi - senza distinzione di sesso, a sottolineare l’uguaglianza tra l’essere uomo e l’essere donna. Ma niente che ci crei un reale contatto con la lacerazione, il dolore e la passione che hanno caratterizzato la vita della pittrice messicana. Le emozioni delle donne sono facilmente condivisibili, ma la vita di Frida Kahlo fu declinata in giovane età da un incidente troppo grave che ebbe forti ripercussioni in tutta la sua esistenza, che non le permise di diventare mai madre e che la tenne immobile in un busto di gesso per molto tempo. Non bisogna nemmeno dimenticare il doppio tradimento del marito e della sorella Cristina e nemmeno il suo essere figlia della Rivoluzione Messicana nonché attivista del Partito Comunista del suo Paese, vedi il legame con Trotsky. Toppe cose, troppa vita. La realtà di Frida è qualcosa di veramente complicato e irruento che colpisce in continuazione ed è difficilmente esprimibile nella staticità di una scena o con racconti di parole soavi di chi la rappresenta o di chi rappresenta le persone di cui si circondava.

La sofferenza di Frida è Frida stessa. Ed è lei stessa a partorire questa sua sofferenza, infatti nel quadro che apre la rappresentazione La mia nascita il volto della madre è coperto a rappresentare la sua assenza fisica e non (dato che fu dipinto subito dopo la sua morte) e, la devastazione della raffigurazione, richiama l’aborto subìto poco tempo prima dall’artista. Frida è mistica in ogni sua sfaccettatura.

La regia di Alessandro Prete ci dà, quindi la possibilità di rivedere i quadri della grande pittrice - mostrandoli a chi ignora la sua esistenza - ma senza le inquietudini che, invece, la caratterizzano. Uno spettacolo con molte risorse - al Teatro della Cometa fino al 28 febbraio - ma che ci offre una lettura lontana dalla Frida che conosciamo. Manca la poesia. L’essere Frida trapela solo dai sui dipinti, dalle sue lettere e parole. Difficilmente si può raccontare. 

 

                                                                                                    Marianna Zito

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