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È  ritornato  il 18 dicembre - sempre al Teatro Antigone di Roma - Concretamente Isterica, la nuova commedia della Compagnia Teatrale Iposcenio scritta e diretta da Sasà Russo che analizza e racconta l’isteria femminile provocata da quell’inguaribile malattia che è l’abbandono.

Maila Barchiesi, Marica Malgarini e Desiree Pasquali vestono rispettivamente i panni di Elisa, LauraSonia: tre sorelle - tre donne - appena lasciate dal loro uomo, che si trovano a vivere insieme quella fase depressiva post-abbandono che le porterà alla ricerca di tutte le soluzioni possibili che potranno salvarle da questa “malattia”. Ad aiutarle interverrà, con la sua grande saggezza, la zia Vanda - interpretata da una simpaticissima Carmela Rossi - che proporrà le sue drastiche soluzioni non sempre ben accette dalle nipoti.

Uno spettacolo piacevole e divertente che porta in scena quelle nevrosi spesso e volentieri sottovalutate che - se risolte - tendono sempre verso una rinascita. La scenografia è essenziale ma riproduce l’ambiente e le intimità necessarie per le confidenze, gli isterismi e le solitudini. Inoltre,  le luci e le ombre dividono i vari sketch introducendo le differenti situazioni che confluiranno, in seguito, in un unico fulcro.

Dapprima si presentano in scena gli attori tutti schierati in fila, di fronte al pubblico con gli occhi bendati che narrano all’unisono tutto il testo, didascalie comprese. Man mano che ciascuno di loro entra nel ruolo del proprio personaggio, tolgono la benda dagli occhi. Sullo sfondo della scena fa capolino una grande stella cometa, simbolo del Natale.

Luca Cupiello (Francesco Manetti), il protagonista, dà le indicazioni a tutti gli altri attori, racconta e spiega le scene narrate al pubblico. Sin dalle prime battute dei personaggi appaiono chiare le dinamiche di famiglia: un padre accondiscendente che vive nell’ingenuo candore della sua ignoranza e una madre (Monica Piseddu) molto protettiva e accondiscendente nei confronti dei figli.

 

Gli equilibri interni della famiglia oscillano tra quelle che sono le aspirazioni dei genitori per i propri figli e la libertà di questi ultimi, ciò che la società impone di essere, modelli che spesso appaiono vuoti di senso e generano risentimento e odio nei confronti di un perbenismo che è solo formale. Così vediamo che Ninetta, la figlia di Luca Cupiello, spinta dai suoi ad un matrimonio di convenienza, si abbandona al tradimento, causando la rottura del suo matrimonio e la crisi di nervi del padre che, in preda alla disperazione, vede il fallimento dei suoi sacrifici. Il terzo atto è quello più straziante e più amaro, tra i personaggi spicca Tommasino (Lino Musella), il figlio del protagonista che si prenderà la grande responsabilità di mettere fine alle sofferenze del padre.

Da questa rappresentazione teatrale - all’Arena del Sole di Bologna dal 14 al 18 dicembre - appare chiara l’intenzione di superare la tradizione, attraverso la reinvenzione dell’atto scenico. Da un punto di vista squisitamente artistico Antonio Latella mette in scena una teatralità non del tutto condivisibile che può risultare eccessiva e impegnativa per gli spettatori, una sorpresa per chi pensava di ritrovare lo spettacolo famoso e amato di De Filippo e ne è rimasto perplesso o deluso. In questo caso il teatro si offre come luogo di confronto, discussione e scontro dialettico tra sbadigli e applausi del pubblico.

 

Marianna Tota

Foto di Brunella Giolivo

Debutta per la prima volta nel novembre del 2013 l’Amletò di Giancarlo Sepe e lo troviamo in scena ancora oggi - e fino all’11 dicembre - sempre in una sala gremita e entusiasta del Teatro La Comunità di Roma.  

Per questa non-tragedia shakespeariana, Sepe si ispira al teatro ideologico espressionista, al realismo poetico di Prévert, a Jean Cocteau e al cinema francese degli anni ’30 per immergerci in uno spazio-tempo surreale che ci riporta all’anno dell’invasione nazista in Polonia: il 1939 di Parigi, sulle rive del Canal Saint Martin.

La scena si apre vuota, buia e gli otto personaggi - con il volto dipinto di bianco (a richiamare la pantomima, con le espressioni e le smorfie tipiche del cinema muto) accompagnati dalla musica, prendono il proprio posto sul palcoscenico. Ai loro piedi è scritto per ognuno un nome e un ruolo.

Troviamo Amletò - Guido Targetti, Ofelia - Federica Stefanelli, il Re - Manuel D’Amario, Laerte - Cesare D’Arco e Claudio - Alessio De Caprio. Infine, Rosencrantz e Guildestern (che all’occorrenza diventano Rose e Guillaume o viceversa) interpretati da Sonia Bertin e Federico Citracca. Tutti si muovono come burattini in stato di ebrezza, cimentandosi in un geniale grammelot pseudo francese quasi completamente comprensibile e intuibile dal pubblico.

Foto di Pino Le Pera

Claudio, non potendo possedere la peccaminosa Gertrude, alla nascita del nipote Amletò, fugge disperato dalla Danimarca per stabilirsi a Parigi nell’Hôtel du Nord - dal film del 1938 di Marcel Carné - un luogo di mistero, di vizi e violenza. Proprio qui - attraverso un ponte di ferro - lo raggiungerà la famiglia di Elsinore, appena sfuggita con un’automobile dal terrore nazista.

Tra ironia e dramma, un Amleto novecentesco  viziato e infantile, capriccioso e depresso, divorato dai fantasmi e dalle ossessioni si confronta con la dolce amata e ingenua - ballerina di flamenco - Ofelia, mentre un amore edipico lo condurrà sempre di più verso la regina, sua madre. Così, come i giovani fidanzati della storia di Carné decidono di suicidarsi insieme, anche Amletò vorrebbe finire con Ofelia che, invece, deciderà di morire sola, sempre per acqua - come nel testo originale - nel Canale Saint-Martin, provocando solo indifferenza e distacco. Ma Amletò ha altri obiettivi: continuare la ricerca del padre morto in un’atmosfera musicale coinvolgente, languida e quasi triste.

Foto di Pino Le Pera

L’Amletò di Giancarlo Sepe è un viaggio onirico fatto di introspezioni e che non culmina nella tragedia ma solo nell’attraversamento psicologico dell’essere umano. Essere o non essere, vendicarsi o non vendicarsi conta ben poco, l’unica cosa certa è il tormento e la contraddizione innata dell’uomo.

 

Marianna Zito

Continua la rassegna Spazio del racconto al Brancaccino di Roma e abbiamo appena visto Gl'Innamorati di Carlo Goldoni con la regia di Gianpiero Borgia.

Gli anni della storia di Goldoni - seconda metà del ‘700 - arrivano sino ai nostri giorni mantenendo però tratti caratteristici dell’epoca, soprattutto nel linguaggio. Qui ne sono tagliati fuori alcuni personaggi, ma i principali - Eugenia e Fulgenzio - e i più rilevanti sono interpretati a pennello e in modo un po’ buffo dai due attori presenti su una scena piena e confusionale - trattasi dello stesso Gianpiero Borgia e di sua moglie Elena Cotugno. Il pubblico è molto divertito da questa situazione pittoresca e dall’accento barese di lui che sposta il testo originale da Milano fino in Puglia ricordandone anche luoghi e prodotti tipici.

Si snoda quindi man mano la riscrittura drammaturgica contemporanea di Fabrizio Sinisi - a tratti lunga e ripetitiva - che ci sbatte in faccia la realtà goldoniana che tutti conosciamo bene: una relazione amorosa che -  per essere tale a tutti gli effetti - si necessita intrisa di gelosie, isterismi includendo il possesso totale della persona amata.

 I due attori - oltre a battibeccare e confrontarsi tra i loro vari “io” - si rivolgono direttamente alla platea innescando risatine e riflessioni su quanto, spesso e volentieri, si diviene ridicoli davanti a un qualcosa che tutto sommato potrebbe essere molto più semplice di quello che pensiamo.

Marianna Zito

Una platea pienissima quella della Sala Umberto ad applaudire Il berretto a Sonagli - adattamento tratto da più di una novella di  Luigi Pirandello - diretto da  Francesco Bellomo e con la partecipazione straordinaria di Gianfranco Jannuzzo nel ruolo di Ciampa.

La scenografia ricca e completa in ogni suo elemento ci inserisce da subito nella classe piccolo-borghese della Sicilia del dopoguerra in cui è ambientata la vicenda e dove ci trasportano le tradizionali musiche di Mario D’Alessandro.

Il filo conduttore della storia è la relazione clandestina di due amanti (visibili insieme solo in un flashback iniziale). Tutti gli altri personaggi sono vincolati dalle rigide condizioni sociali che li costringe ad accettare ogni tipo di offesa pur di salvare l’onore agli occhi altrui e a muoversi nella vita come pupi. È ciò che succede a Ciampa che, con le tre corde (quella seria, quella civile e quella pazza) si trova a dover risolvere una situazione attraverso un percorso intriso di ipocrisia alle spese della povera Beatrice (interpretata da Emanuela Muni). 

Divertenti e leggere le interpretazioni di Franco Mirabella nelle vesti del Commissario Spanò e di Anna Malvica nei panni della “disperata” Signor Assunta.

Il berretto a sonagli sarà in scena alla Sala Umberto di Roma fino a domenica 4 dicembre.

 

Marianna Zito

Sul palcoscenico è visibile da subito un pianoforte, mentre man mano dalla penombra riconosciamo due uomini. Il primo - Giorgio Bernacchi - è scalzo e dalle sue mani comincia il suono di un violoncello, il secondo - invece - ci racconta una storia, la sua. 

Ha inizio così il viaggio in autostrada di Joel per raggiungere l’amato Scott da New York alla California, un racconto commovente e straziante che disegnerà nella nostra mente una vasta e rasserenante pianura circondata da montagne indaco e porpora (purple is a symbolic color for the gay community in many Western cultures) che verrà interrotta da momenti intensi di paura e dolore.

È un monologo in penombra e a più voci quello di Angelo Di Genio che lo porta in scena con ironia, rabbia e una forte mimica espressiva interpretando più personaggi, molto differenti tra loro ma tutti condannati all’instabilità e - in un modo o nell’altro - perennemente in viaggio verso la stessa solitudine. Una solitudine che negli anni ’90 - in cui è ambientata il testo di Godfrey Hamilton - accomuna tutte le vittime del sistema politico e sociale del tempo, alle prese con discriminazioni sessuali, religiose, di classe e con una piaga che tuttora ci abbatte, l’AIDS. Le autorità politiche non le diedero il giusto peso ma la considerarono solamente la malattia degli omosessuali e dei tossicodipendenti (ne ricorderanno qualcosa i reaganites). 

ROAD MOVIE ci riporta  a quella che è l'immensa opera kushneriana e ai suoi personaggi che qui sono racchiusi in un unico corpo in grado di passarci vis à vis le sue vibrazioni e la sua eccitazione di vita. perché è proprio di vita che abbiamo bisogno.

Diretto da Sandro Mabellini e prodotto dal Teatro dell’Elfo, ROAD MOVIE sarà in scena fino a domenica 4 dicembre al Teatro dell’Orologio di Roma.

 

Marianna Zito

Foto di Manuela Giusto

Cani, testo scritto e diretto da Vincenzo Manna, vincitore del CassinOff 2014, è allestito per la prima volta in forma di studio al Teatro Vascello di Roma. L’inizio dello spettacolo è caratterizzato da un buio e un silenzio totali bruscamente interrotti da una musica e illuminazione psichedelica: lo spettatore, che con difficoltà intravede due figure, viene posto davanti ad una scenografia scarna, quasi assente, ma dalla forte capacità comunicativa e narrativa.

Grazie all’ingegnose trovate tecniche messe in scena ed alla grande carica emotiva della recitazione dei tre attori (Federico Brugnone, Aram Kian, Zoe Zolferino), il lungo corridoio della Sala Studio da non-luogo, vago e spoglio, si trasforma in una postazione d’alta montagna, in una zona di  confine tra due paesi differenti per etnia e religione.

Collocato in una immaginaria cornice naturale impervia, lo spettatore diventa testimone della reale solitudine e violenza dei protagonisti, due soldati che, isolati e abbandonati dal resto del mondo, si limitano a seguire rigidamente i dettami e i dogmi indicati da un ipotetico gruppo di comandanti. L’arrivo imprevisto di una giovane donna, tuttavia, farà emergere un ulteriore motivo di conflitto e di scontro all’interno del loro rapporto e della loro psiche.

Il tema dell’abbrutimento, dell’alienazione, della perdita della personalità sono rappresentati con uno stile fortemente poetico e con un linguaggio teatrale altamente espressivo: il latrato dei cani, la continua pioggia, il nemico presente ma invisibile, sono altri protagonisti con cui viene interpretata la violenza animalesca e il lento scivolare nella follia, nella inarrestabile degenerazione della mente e del corpo.

La montagna e il confine che essa stessa rappresenta diventano, quindi, simboli di quel limite, sempre sottile e labile in condizioni di guerra, tra lucidità e alienazione, vittima e carnefice, identità e diversità. 

 

Eleonora De Caroli

È un armonioso omaggio a Oscar Wilde l’atto unico di Valeria Moretti - diretto e interpretato da Gianni De Feo - portato in scena fino al 27 novembre al Teatro Lo Spazio di Roma, un luogo che ben si presta a ospitare una scenografia minima da un lato e una piccola orchestra con percussioni - parte integrante per tutta la durata dello spettacolo - dall’altro.

Una sintesi strabiliante quella di De Feo che - accompagnato dalla voce suadente di Pamela Villoresi - ripercorre la vita e le opere del grande esteta irlandese attraverso un percorso decadente e poetico che ci condurrà dai boulevards di Parigi alla solenne quiete del Père-Lachaise.

Un artista Gianni De Feo decisamente poliedrico, in grado in pochissimo tempo di ubriacarci di sensazioni e repertori del tutto differenti tra loro, passando rapidamente dal ruolo dell’amato a quello dell’amante  - e quindi da da Wilde a Bosie - dal tango al cabaret: per raccontarci la passione, le sregolatezze, i viaggi e per mostrarci che la morte non è altro che la proiezione di noi stessi in un altrove a noi molto vicino.

Marianna Zito

 “Tu non sai quante volte bacio i cancelli di casa mia che  si aprono soltanto se citofono alla pazza della porta accanto. E lei mi lascia fuori come un mendico.

 

Prima di parlare dello spettacolo in scena in questi giorni - e fino all’11 dicembre - al Teatro Eliseo di Roma, scritto da Claudio Fava, è necessario un appunto. Nonostante manicomio e follia siano i temi dominanti sin dalla prima adolescenza (comprenderanno almeno quindici anni della sua vita),  Alda Merini è una delle più importanti voci della letteratura italiana del ‘900.

 LA PAZZA DELLA PORTA ACCANTO è un'opera in prosa della Merini, delineata da una forte sofferenza interiore da cui è, appunto, scaturita questo lavoro intriso di emotività disseminata in parole e aneddoti, spesso totalmente disconnessi tra di loro. “Ma chi è poi la pazza della porta accanto? Per me è la mia vicina. Per lei la matta sono io, come per tutti gli abitanti del Naviglio, della mia casa” dichiara in una conversazione, proiettando altrove quell’epiteto che gli abitanti del Naviglio utilizzavano per etichettarla. In questo modo si mette nelle condizioni di raccontarci la vita - la sua vita - attraverso la poesia in un’opera che si palesa in una vera e propria confessione lirica toccando ricordi, luoghi e persone che non seguono un ordine cronologico ma che confluiscono in un unico sentimento totalizzante. Il testo è diviso in quattro sezioni legate all’Amore - ai suoi vari e diversi amori - al Sequestro, alla Famiglia e al Dolore.

Il manicomio - dove si svolge l’intero spettacolo portato in scena - è il luogo della sua distruzione ma che, paradossalmente, diviene anche un qualcosa di cui sentire nostalgia “i malati si preoccupavano per me, la gente sana no”. La follia quindi raggiunge una propria sacralità, divenendo una sorta di dolore purificatore che muta in poesia.

Foto Archivio Eliseo

Questa è l’essenza di una donna, di una poetessa. Essenza che non emerge dallo spettacolo in scena in questi giorni al Teatro Eliseo. LA PAZZA DELLA PORTA ACCANTO  - con la regia di Alessandro Gassmann - vede un’interpretazione notevole dei vari personaggi - in ognuno dei quali sono visibili pensieri o atteggiamenti della protagonista (interpretata da Anna Foglietta) - immersi in un a spiccata scenografia di luci, ombre ed effetti visivi ma che alla poetessa dei Navigli, a mio avviso, rimanda solo in poca parte. Lo spettacolo è gradevole nella sua forma totale, a primo acchito sembra quasi sorprenderci per regalarci poi man mano un’atmosfera di urla e rumori con in sottofondo le parole della Merini. Se ne delinea l’immagine di una schizofrenica. E la poesia? E quella forza emotiva che la Merini emana nel suo ultimo testo da cui lo spettacolo prende il titolo?

 

Marianna Zito

 

“Seconda stella a destra 
questo è il cammino 
e poi dritto, fino al mattino 
poi la strada la trovi da te 
porta all'isola che non c'è.”

 

Sarà per la colonna sonora tratta dalle canzoni di Edoardo Bennato, sarà per l’atmosfera magica e la bravura di tutti i venti personaggi presenti sulla scena: il Musical PETER PAN al Teatro Brancaccio di Roma continua letteralmente ad incantare grandi e piccini.

La storia è sempre quella narrata nel romanzo di  James Matthew Barrie ma qui la regia di Maurizio Colombi inserisce elementi divertenti e attuali arricchiti da una scenografia di colori, animazioni digitali ed effetti speciali. L’utilizzo di nuove tecnologie per la simulazione del volo di Peter Pan e per la presenza in sala della fatina Trilly ci portano in viaggio con i protagonisti alle prese con indiani e pirati e alla scoperta di tutti gli abitanti dell’Isola che non c’è.

A dieci anni dal debutto, a vestire i panni dei protagonisti sono Giorgio Camandona e Martha Rossi - pieni di grinta e carisma, in grado di creare un enorme trasporto e coinvolgimento sul pubblico che, in alcuni momenti, diventa anche parte integrante dello spettacolo stesso. Sin dall'ingresso in teatro i bambini possono divertirsi e fotografarsi nei panni dei personaggi o al centro di un cielo stellato.

Al Teatro Brancaccio di Roma fino a domenica 11 dicembre! Un sogno assolutamente da vivere!

 

Marianna Zito

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