His soul swooned slowly as he heard the snow falling faintly through the universe and faintly falling, like the descent of their last end, upon all the living and the dead.
L’opera di Joyce diventa il contenitore di uno spettacolo che racchiude le caratteristiche teatrali tradizionali e l’impronta filmica tipica di Giancarlo Sepe. Dopo essere stata presenteta in due parti al Festival dei Due Mondi di Spoleto, The Dubliners di Sepe - nello specifico Ivy Day e The Dead - arriva a Roma al Teatro La Comunità in un’unica versione, grazie alla produzione della Compagnia Orsini.
L’atmosfera è coinvolgente e spiazzante, sin dall’inizio, grazie alla scenografia tombale che vede al centro del palcoscenico un tavolo con innumerevoli crisantemi di vari colori. Gli attori - della Compagnia del Teatro La Comunità - sono disposti attorno a questo giardino funebre, a terra e immobili. E sullo sfondo sagome, a rappresentare una staticità oramai solo da idolatrare. Lo spettatore può anche decidere di seguire la rappresentazione sulla scena stessa, nei quattro lati, vicino agli attori. Improvvisamente nel buio - tra lampi di luci e rumori e tuoni - si comincia. La paralisi sociale, la necessità e il fallimento della fuga sono i temi cardine narrati attraverso le zone d’ombra, dove i vivi e i morti si incontrano e si confondono per palesare la sofferenza sociale di un popolo, nello specifico quello appartenente a una Dublino dei primi anni del ‘900.
Personaggi sterili, donne e uomini angosciati e incapaci di arrivare alla salvezza intenti a condurre vite viziose e angustiate, mascherate con atteggiamenti ipocriti e decadenti di esistenze schiave delle abitudini quotidiane, incastonate in un tempo che trascorre immobile. Una vera e propria paralisi spirituale legata ai vizi e all’angoscia del passato, mentre una consapevole ricerca di identità - che possa abbattere le tensioni sociali e politiche - continua a girare su se stessa senza mostrare mai la luce.
Un’analisi, quella di Sepe, che si sviluppa attraverso il canto e i movimenti statici dei personaggi - fantocci dai volti funerei di morte - che sono sopraffatti da tremolii isterici ma che in realtà non li conducono in nessun luogo se non nell’aridità dei loro animi e delle loro convinzioni. I corpi man mano si ricompongono per riprodurre le attività e i gesti di una vita passata o ipotizzata o semplicemente desiderata e per improvvisarsi in balli frenetici o in canti tradizionali di guerra. I dialoghi sono espressioni in lingua originale facilmente comprensibili, perché scandite e sottintese nei gesti stessi.
Mentre, seduto comodamente sulla sua sedia, un Lord inglese – interpretato da un coinvolgente Pino Tufillaro – osserva sornione questo scenario disgustoso sorseggiando il suo tè. Assolutamente da vedere!
Marianna Zito
Foto di Matteo Nardone