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I padri vogliono far morire i loro figli (perciò li mandano alla guerra)

Pier Paolo Pasolini – Affabulazione -1966

 

Affabulazione è una delle opere drammatiche in versi, ispirata al teatro greco di Pier Paolo Pasolini. E’ un percorso interiore “mostruoso e folle” che rappresenta la crisi esistenziale e l’invidia del padre mentre osserva figlio, in età adolescenziale, quasi a volersi incarnare in lui con le pulsazioni, le emozioni e i sentimenti tipici di quell’età. Dall’altra parte il figlio è disinteressato a queste dinamiche psicologiche di sesso e potere e si ribella al padre fino a esserne ucciso: si crea un’inversione dei ruoli, prima di confronto e poi di scontro.

Ci troviamo nella situazione in cui i figli sono predestinati in qualche modo ad essere puniti per le colpe dei loro padri. Da quest’opera di Pasolini è liberamente tratto lo spettacolo in chiave moderna Tutti i padri vogliono far morire i loro figli di Fabio Morgan e Leonardo Ferrari Carissimi portato in scena dalla compagnia CK Teatro al Teatro dell'Orologio di Roma fino al 3 aprile.

Siamo in una casa con giardino nell’epoca dell’assenza dei padri, reduci dal ’68 “l’anno in cui tutto era possibile”. Le tematiche di questo periodo sono, appunto, il filo conduttore dello spettacolo che comincia con il sogno di un padre, Carlo –distruggere…consumare…esaurire – un sogno ricorrente che non riesce mai a ricordare. Un padre che si finge malato e che ritorna a casa dopo 20 anni ritrovandosi di fronte una moglie tradita e un figlio pressoché sconosciuto che lo vede come un genitore incapace, “un povero stronzo irresponsabile e patetico”, delle cui azioni passate egli paga solo le conseguenze.

Attraverso scene pietose di urla,sesso,masturbazione e morte si sviluppa la tragedia di essere figlio/orfano e la non rassegnazione del padre al trascorrere del tempo. I nostri padri ci hanno catapultato in un mondo che loro stessi hanno consumato, senza pensare al nostro futuro e condannandoci all’infelicità.

                                                                                                  Marianna Zito

A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: "La fessa". Io, invece, rispondevo: "L'odore delle case dei vecchi". La domanda era: "Che cosa ti piace di più veramente nella vita? Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella" 

 

A far l'amore comincia tu. La colonna sonora è già di per sé troppo per le orecchie dell'Italia perbenista di oggi. Figuriamoci l'intero film. Jep Gambardella ci accompagna e ci fa scoprire, perché ovviamente non tutti lo sanno, cosa succede agli eventi mondani nella capitale, cosa succede su quelle terrazza che quando ti affacci di notte vedi il Colosseo. E dico il Colosseo.

Se è piazza di Spagna ancora meglio. La bellezza passata che ospita la mondanità, il divertimento del presente. E qui si indignano. Ma si indigna chi di queste feste ci vive. E a vivere di queste feste non c'è niente di male. Il male è nell'indignazione stessa. Ognuno ha la sua vita e ognuno sceglie. Ma alla fine ci sta anche che un film piace o non piace. Sono gusti, ma senza troppe polemiche. Jep è un personaggio geniale, uno scrittore, allo stesso tempo sia osservatore sia  protagonista e attua un'accettazione di ciò che accade senza perdersi nella drammaticità malinconica che invece captiamo nella Dolce Vita felliniana. L'accento napoletano, il sorriso affascinante e la sigaretta, solo tra la folla, immerso nella bellezza della Roma passata e circondato dai rumori della mondanità. Assapora i silenzi della città eterna passeggiando di notte e contemplandone la beltà sciupata  dalla Roma bene priva di cultura e attenta solo ad ostentare la propria volgarità e i finti successi. Accanto a questo siparietto affiora una critica quasi pasoliniana del potere che sottolinea la forza delle classi dominanti che sguazzano in vite senza senso che alla luce del sole diventano solo frustrazione, ignoranza e menzogna. "Siamo tutti sull'orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che farci compagnia, prenderci un po' in giro". Un impatto "esagerato, presuntuoso e sincero" come afferma lo stesso Sorrentino, un impatto che esalta la critica internazionale e inferocisce quella italiana che si sente messa a nudo e eridicolizzata.

Non a caso il film è stato presentato in concorso al festival di Cannes 2013, non ha caso ha vinto il Golden e, sempre non a caso, conquista l'Oscar 2014 Globe come miglior film straniero. Ovviamente Sorrentino ha colto nel segno: la disapprovazione italiana ne è solo e semplicemente la conferma.

 

Marianna Zito

 

Le parole che usiamo tutti i giorni, con il tempo, mutano il loro suono e la loro forma e forse anche il valore, come ad esempio la semplice e significativa espressione Ti voglio bene che oramai è diventata comprensibile in sole 3 lettere TVB. E come il cibo, anche le parole passano attraverso la nostra bocca.

Il palco dell’Auditorium del Teatro Studio Borgna è diventato, per il Festival delle Scienze - L’Ignoto, una piccola cucina e il Cuciniere Errante Carmelo Chiaromonteinsieme al giovane cuoco Marco Cavallo, ci svela piccole perle di ignoranze culinarie e nutritive attraverso una fantastica carrellata di 60 immagini e 25 libri consigliati.

Carmelo Chiaromonte, direttamente dalla Sicilia, ci spiega come nel nostro quotidiano ci dedichiamo soprattutto a scongelare o a scaldare cibi precotti mentre la domenica che si fa? Ovvio, il ristorante, dove pretendiamo anche che il nostro piatto preferito venga cucinato allo stesso e identico modo della volta precedente! Invece, basterebbe così poco  per inventare, con le nostre mani, cibi meravigliosi da gustare e basterebbe un pizzico di interesse per entrare in un mondo naturale che nemmeno immaginiamo. Così come non immaginiamo minimamente cosa si nasconde nei surimi, che ormai mangiamo da 40 anni ma di cui non abbiamo mai letto gli ingredienti oppure con cosa colorano di rosso il nostro amato Campari (che è la cocciniglia, questo forse sarebbe stato meglio ignorarlo!).

Ci vengono così svelati i misteri della cucina molecolare, i miracoli dell’azoto liquido, dell’alginato o dell’ambra grigia oppure il mondo misterioso dei funghi impossibili da coltivare come, per esempio, l’amanita muscaria chiamata anche cerchio delle streghe. L’amanita muscaria è il fungo allucinogeno  con cui si stordiscono e ballano il rock’n’roll le renne della Siberia. Un’altra risorsa infinita è il sambuco: troviamo i fiori di sambuco, i frutti di sambuco, lo sciroppo di fiori di sambuco, in ultimo ma non ultimo il liquore francese St. Germain, un buon antidoto per chi soffre la depressione domenicale! Un’altra curiosità ignota e interessante è che un tempo, in America, erano molto diffuse le cucine misteriose e i riti per favorire l’accoppiamento oppure per scongiurare le “corna”.

A conclusione della performance ci viene presentato un importante mistero verso il futuro: la tecnica di stampa del cibo, nello specifico di tavolette di cioccolato della Antica dolceria Bonajuto di Modica, in 3D. E con il motto se lo puoi immaginare lo puoi creare Salvo, Alessandro e Sebastiano hanno sperimentato la prima stampante 3D, per creare appunto sculture di cioccolato, da presentare a EXPO 2015

All’uscita il nostro Cuciniere Errante ha lasciato a tutti in dono regalo un bulbo di topinambur!!

 

Marianna Zito da https://www.mozzafiato.info/2015/01/mangiocomeparlo-lezione-di-cucina/

Il circuito per il cinema di ricerca NOMADICA ha portato a Roma in girum imus nocte e consumimur igni (della catastrofe e dei suoi superstiti). La catastrofe e i suoi superstiti vengono, appunto, celebrati tra le accoglienti vie del centro e tra gli imperiosi monumenti che sembrano trovarsi  lì quasi a mitigare questo caos. Siamo al cinema Trevi, nella Cineteca Nazionale in collaborazione con Fuori Orario di cui festeggiamo, allo stesso tempo, i 25 anni di esistenza. I superstiti, per sopravvivere alla catastrofe devono saperla vivere dal di fuori lasciandola coordinare da un blob, da una catastrofe già accaduta e da loro stessi riproposta, allontanando gli occhi dal disastro. Il tutto si svolge attraverso i sei temi/puntate di ZAUM, una parola che richiama i futuristi russi estremi senza racchiudere in sé significati specifici, perché è lì a intendere un qualcosa che va ben oltre la mente, ben oltre la vita percorrendo un lasso temporale a partire dal G8 di Genova fino all’11 settembre di New York. E proprio nel cuore di Roma troviamo la cine-poesia: Antonello Faretta, regista lucano ci accompagna grazie a John Giorno, uno degli esponenti della poesia americana contemporanea, tra terre incontaminate con la proiezione di Nine Poems in Basilicata. New York, Roma e il sud lucano si uniscono per 55’ in una simbiosi mistico-surreale. A parlarci del film sono lo stesso regista Antonello Faretta e il prof. Giorgio De Vincenti, docente di Estetica del Cinema e dei Media dell’Università RomaTre.

John Giorno vive in modo poetico, intrecciando tutte le contraddizioni che, nella vita, lo caratterizzano come l’omosessualità, la religione e l’arte poetica. Egli rappresenta il passaggio dalla parola scritta alla Spoken Word che è la parola elevata ai massimi livelli: la poesia vissuta e trasmessa è la sua missione e la attua attraverso i suoni delle parole e soprattutto attraverso il suo respiro che permette alla voce di mutarsi in poesia e di espandersi per il mondo. Ed è proprio il respiro a fare da sottofondo a tutta la ripresa del video.

Più che un film ci ritroviamo davanti un libro di immagini e parole e, appunto come un libro di poesia, è leggibile tutto d’un fiato oppure a capitoli.  I capitoli - ovvero le poesie - sono nove  e prendono vita dalle culture inscritte nei nove differenti luoghi della terra che segna le origini del poeta, la Basilicata: la Rabatana di Tursi, Craco, Lagopesole, Brienza, Venosa, Castelmezzano, Montescaglioso, Tricarico, Aliano. L’impronta del film è diretta, senza studi approfonditi che ne precedono la realizzazione: John Giorno recita e Antonello Faretta lo riprende catturando le sue emozioni e abbandonandosi tra il suono della sua voce.                                     

La Basilicata è una sorta di terra elegiaca in cui il poeta si spinge alla ricerca della sua memoria e della sua identità. Ogni poesia ha un legame con il luogo o con lo spazio scelto e ogni luogo, a sua volta, rappresenta la memoria di chi lo ha vissuto. A volte l’immagine è statica. John Giorno è immobile in mezzo alla scena, alla natura, in una stanza. La dinamicità comincia nel momento in cui la parola esce dalla sua bocca e si immerge nel mondo, quasi sottoforma di musica.                                                        

Seguendo la sequenza logica dei nine poems, il primo capitolo è proprio Tursi e più esattamente la Rabatana. Lo sfondo è una casa del centro storico. La tenda verde di plastica dura, che ricopre l’ingresso, si muove con il vento al ritmo delle parole vibranti di John Giorno. Sulla destra una stradina, un percorso, un andare verso il passato per ritrovarsi più ricchi nel futuro. Sulla sinistra dell’inquadratura un’anziana signora seduta che osserva il poeta di spalle con gesti quasi di scoperta verso quest’uomo che parla una lingua incomprensibile.

Tre gli elementi fondamentali. La luce, noi siamo la luce e abbiamo la capacità con essa di riempire i nostri vuoti. Non è importante ciò che accade nella vita ma le reazioni luminose che abbiamo noi di fronte a tutte le circostanze. Le stelle, “Milioni di stelle mi sono entrate nel cuore, benvenute a casa”, a sottolineare il bisogno viscerale e incessante del ritorno alla terra, alla memoria, a riascoltare le vecchie nenie dei luoghi dimenticati. E poi i fiori e i loro colori che accompagnano l’ultimo capitolo.          

Un uomo di straordinaria forza vitale, immerso nella voglia di vita, che cammina dritto e fiero verso la non paura della morte. Un uomo in grado di apprezzare ogni singolo momento, senza limiti e vergogne utilizzando tutti i mezzi possibili per afferrare in ogni suo attimo la felicità. E ci riesce, John Giorno.

La traduzione dei testi – recitati in lingua originale – scorre a sottotitolo nello schermo e ha le profonde parole e la mediazione poetica di Domenico Brancale.

 

Ci fa sorridere Il diario di Maria Pia di Fausto Paravidino, in scena a Roma al Teatro dell’Orologio fino al 25 gennaio. Ci fa sorridere anche se il tema intorno a cui ruota lo spettacolo è la morte di Maria Pia, madre dell’autore, nonché regista e attore. 

Nello specifico più che la morte, la pièce ci racconta la vita nel momento in cui c’è la consapevolezza che si sta per morire, quel preciso passaggio di cui siamo tutti ignari. Maria Pia è un medico alle prese con la sua malattia da molti anni e i suoi ultimi giorni li trascorre  in ospedale. Qui  la colpisce la depressione causata dalla perdita delle forze e di tutte quelle cose che la mantenevano energica e vitale. Una depressione che coinvolge anche chi le sta vicino. Per sopperire questo malessere, con l’aiuto del figlio Fausto, si racconta attraverso un diario testimoniando, in questo modo, cosa succede al suo corpo e al suo spirito in quei momenti così diversi e particolari. È un momento di transito in cui bisogna mantenere un equilibrio per ritrovarsi, in un secondo momento, arricchiti e più sereni.

Grazie a questa rappresentazione veniamo proiettati anche noi nella sensazione del nulla, del vuoto, travolti da un rullo compressore. Un nulla dal quale man mano, come fiori, spuntano i ricordi di una vita felice insieme alle persone amate dalla protagonista. E quel nulla si riempie di tutto.

La scena è formata da due sedie, una sedia a rotelle e tre attori: Monica Samassa nei panni di una profonda Maria Pia, Fausto Paravidino e Iris Fusetti nel ruolo di se stessi e in un scambio armonico di altri personaggi.

Il diario di Maria Pia è un regalo che ci fa Fausto Paravidino, perché mettere a nudo questi sentimenti intimi e personali può essere solo un regalo. Un modo fra tanti di condividere e affrontare un dolore così forte, per far vivere Maria Pia un po’ in tutto i posti che l’hanno vista in scena e un po’ in ognuno di noi.

 

                                                                                                                                                                                     Marianna Zito

 

Questo carteggio è la storia di un’amicizia. Attraversandolo, entriamo in contatto con la reciprocità di due anime che si cercano, si toccano e si stringono per diventare e rappresentare, l’una per l’altra, la luce del domani. Abbiamo sempre bisogno di uno spiraglio per sconfinare la costante infelicità delle nostre vite che ruotano perlopiù intorno al dolore, in memoria delle cose passate.

Domenico Brancale e Jonny Costantino sono due uomini che vivono di un indispensabile legame di fratellanza. Entrambi mostrano come, da luoghi lontani, sia viva e necessaria la ricerca della metà, dell’amico con cui condividere i pensieri, i sogni, le pene e la solitudine. Un fratello che, nonostante l’appartenenza a un cammino diverso, riesce a sentire “nel proprio sangue l’esistenza dell’altro”  fino quasi a negare se stesso. La disperazione dell’io diventa la speranza del noi.

Questi pensieri nascono da luoghi di pace, isolati, in cui i due uomini si perdono. Ad esempio la vicinanza al mare, che si impossessa di tutto ciò che ci appartiene per poi restituircelo dandoci la possibilità di rigenerarci e ricominciare, per arrivare ad una mutazione, a un cambiamento che ci allontana solo da una parte di noi stessi, e alla leggerezza che da esso deriva. Ogni momento e ogni luogo rappresentano una rinascita. Attraverso le esperienze di grandi artisti del passato, quali poeti, pittori, filosofi si diramano le tematiche fondamentali dell’esistenza. L’amore da cui ci lasciamo distruggere fino a morirne, seppur restando vivi. L’insoddisfazione innata dell’uomo, l’eterna attesa, il riconoscimento e l’accettazione di noi stessi. La ricerca della donna riconducibile al grembo materno, ma allo stesso tempo la donna vista come sinonimo di bellezza totalizzante in cui l’uomo vuole perdersi e “sfarsi” per cambiare, per modularsi.

La morte, l’imprevedibilità della vita che può finire da un attimo all’altro per colpa non del destino, che non esiste, ma del carattere che ci spinge a compiere alcune scelte e non altre. Infine, ma forse più importante del resto, la felicità. Quella che ci permette di uscire dagli schemi sociali, di scrivere e creare, di essere outlaw. La felicità come obiettivo sempre alto da raggiungere, come una promessa da mantenere verso noi stessi.

Due fascicoli. Una raccolta di sedici lettere di Domenico Brancale, poeta lucano (Sant’Arcangelo, 1976) a Jonny Costantino, scritte nell’arco di 7 anni e da posti disparati, da Policoro a Parigi, dalla Germania alla Calabria, da Venezia a Istanbul. Mal di luce, di Jonny Costantino, saggista e filmmaker calabrese (1976), “conati di lettere mai spedite” a Domenico Brancale. Conati di parole, non datate, che ci proiettano in immagini costruite attraverso meravigliosi meccanismi di stoicismo e di bellezza. (Prova d’artista, Venezia).

Due più una

Quali sembianze assume
il volto di una donna
tra il riverbero
dei vostri pensieri.
Dove si insinua
la mia aurea stanca
tra le rocce delle vostre
solitudini.
Cambiano
e le forme
e le voci
e i colori.
L'anima è una.

Riflessi reciproci di luce.

Una è la vita
e la morte.
I sogni cadono
dagli occhi.
I disegni dalle mani
La luce è troppo alta
chiedo di abbassarla.
Rimango al buio e vi guardo
da lontano.
Vi stringo nel corpo
vacante.
Non ho niente,
solo parole.

                                                                                                                                         Marianna Zito

Mare Ignotum

11.11.2014 12:30


La sala Teatro Studio Borgna dell’Auditorium Parco della Musica di Roma ha ospitato il concerto Mare Ignotum – La paura della paura. La performance ha avuto luogo all’interno del decimo Festival delle Scienze  che si è concluso ieri nella capitale.

L’evento ha come filo narrante il tema de L’Ignoto e l’importanza del “non sapere”. L’ignoto è la sfida che da sempre caratterizza l’essere umano e la scienza ne è la maestra, attraverso la nostra ignoranza e le nostre incertezze con cui dobbiamo convivere e fare in modo che diventino uno strumento importante per ampliare la nostra conoscenza. La paura d’eccezione è la paura della paura, quindi la paura sempre esistita della morte.Roma

I brani dei Death Speaks di David Lang – nella loro esecuzione in prima europea – fanno parlare la morte, guardano alla vita con gli occhi della morte stessa. Nelle pause tra un pezzo e l’altro, il filosofo Maurizio Ferraris, relaziona la morte al pensiero filosofico e ironizza ampiamente sui vari comportamenti che assume l’individuo dinnanzi ad essa.

Attraverso varie citazioni di grandi filosofi, scrittori, cantanti e film, ci parla  delle strategie per limitare la paura di ciò che accadrà, che è un argomento in cui spesso si è cimentata la filosofia: trovare il modo con cui ognuno di noi può sconfiggerla . Mentre in passato la morte era vista come un qualcosa che veniva dall’esterno, ora è dentro di noi. Filosofare è imparare a morire.

Le strategie per sconfiggere questa paura sono tante. Da Epicuro che ci suggerisce di non pensare alla morte, ma con il risultato di creare un’ossessione a Montaigne, ossessionato in modo maniacale dall’idea della morte, che ci istruisce su come imparare a morire. A volte, come direbbe Cartesio, è solo una passione dell’animo. E qui potrebbe nascere il quesito: il marito piange la morte della moglie ma quanto sarebbe felice effettivamente se ella tornasse?

Rilevante e da custodire è il messaggio lasciatoci da Hemingway ne Le nevi del Kilimangiaro, dove il protagonista, prima di morire, parla alla moglie della morte spiegando che non ha una forma ma che occupa solo spazio. L’uomo muore felice semplicemente perché smette di avere paura della paura di morire.

Nel contempo i brani si liberano in sala intensi ed emozionanti. In You will return la morte conforta l’uomo assicurandogli un ritorno, ma alla cenere. I hear you ha alla base l’invocazione della morte e Ferraris ci pone la domanda: e se la morte rispondesse? Ma, ovviamente, la morte non risponde. In Mist is raising la morte costruisce un percorso d’amore e si mostra indulgente davanti alla vita passata dell’individuo, senza giudicarlo, mostrando così come orripilanti e terribili sono gli esseri in vita. Una morte amica che richiama il brano The End dei The doors, in cui Jim Morrison canta This is the end my only friend.

Non si può che concludere questo argomento funesto che con un sorriso. Infatti ad ampliare la nostra totale visione è l’ultima conferenza del filosofo francese Jacques Derrida, nel 2004. Egli sostiene che la paura scatena in noi meccanismi peggiori del male stesso e proprio a Derrida la morte permetterà ancora di parlare attraverso una lettera lasciata al figlio, in cui incita tutti a sorridere perché anche lui ovunque si trova lo sta facendo.

“Amici miei, vi ringrazio di essere venuti. Vi ringrazio per la possibilità della vostra amicizia. Non piangete: sorridete come vi avrei sorriso. Vi benedico. Vi amo. Vi sorrido, ovunque io sia”.

                                                                                                                                                 Marianna Zito

da Mozzafiato  https://www.mozzafiato.info/2015/01/mare-ignotum/   26 gennaio 2015

 


   Basilicata - 1986

 

A cura di Denis Curti e con la promozione della Regione Lazio, Palazzo Incontro - in Via dei Prefetti a Roma - ci regala ampie forme di luce, grazie all’esposizione di 130 fotografie di Franco Fontana (Modena, 1933). Quarant’anni di fotografia a colori a indicare il movimento che rappresenta “la vita, il pensiero, il cuore, la gioia”.

L’esposizione è divisa in sezioni a tema che contengono i lavori e i progetti realizzati dell’artista sin dagli anni ’60, gli anni in cui comincia il suo percorso fotografico. Sin dagli esordi sceglie di utilizzare il colore come protagonista delle sue fotografie soprattutto nella forma dello spazio dei suoi paesaggi che volge a rappresentare la chiave dell’esistenza. La Basilicata appare in molte pubblicazioni di Franco Fontana e, anche nella mostra Full Color, i paesaggi lucani compaiono in un gran numero di fotografie, differenti nello spazio e nel tempo, accanto ad altri luoghi italiani e del mondo.

Anche il mare è un soggetto importante, l’orizzonte solitamente divide l’immagine in due parti, acqua e cielo che diventano due superfici continue e cangianti. Nel 1978 scatta una foto in Puglia, a Baia delle Zagare che verrà scelta per una campagna pubblicitaria dal Ministero della Cultura Francese. Il 1979 vede come  tema predominante le luci americane: colori, volumi appiattiti e geometrie. A partire dalla metà degli anni ’80 iniziano anche le fotografie all’interno delle piscine: corpi nudi, soprattutto femminili, sospesi nell’acqua. Dagli anni ’90 comincia il progetto che si sviluppa in ogni parte del mondo e che vede come protagonista l’ambiente urbano: sull’asfalto grigio si sviluppano questi colori a contatto con la luce del giorno e con lo scorrere del tempo.

La prima impressione è quella di trovarsi davanti veri e propri dipinti surreali composti da linee e forme geometriche sovrapposte, costruite attraverso la luce, a creare contesti e paesaggi al di fuori della realtà. Le figure umane diventano ombre lunghe e isolate che  riportano all’idea di presenza/assenza, c’è e non c’è. Per Fontana la fotografia è semplicemente la realtà delle cose, un atto di conoscenza della sua vita che gli dà modo di esprimere liberamente i propri pensieri, la testimonianza di ciò che si vede e di ciò che si è. Utilizzare la creatività per ricercare la verità ideale, rendendo visibile ciò che non si vede, per descrivere le inquietudini dell’anima. Tutto ciò avviene grazie al colore, non a caso la mostra si intitola Full Color.

 

Dal 07 ottobre 2014 al 18 gennaio 2015 l’Accademia di Francia a Roma e il Musée des Beaux-Arts di Parigi danno la possibilità di perdersi, all’interno delle Grandes Galeries di Villa Medici, nei bassifondi del barocco romano, lasciandoci scoprire il lato misero e vizioso della Roma seicentesca. Ambienti celati, luoghi di perdizione già conosciuti dal Caravaggio, in contrapposizione alla ricchezza della nobiltà e al potere della corte pontificia del tempo. Le opere in esposizione, più di cinquanta, appartengono ai più importanti musei europei e a collezioni private e portano la firma di Claude Lorrain, Pierre Brebiette, Leonaert Bramer, Bartolomeo Manfredi, Pieter van Laer, Jan Miel ed altri ancora. Questi artisti maledetti provengono da ogni parte del mondo e si insediano nel centro storico della città (le parrocchie di Sant’Andrea delle Fratte, San Lorenzo in Lucina, San Nicola in Arcione e Santa Maria del Popolo) che in quegli anni era il ritrovo culturale più all’avanguardia d’Europa.

La mostra si articola in sezioni. Il soffio di Bacco è ispirata alla figura del dio del vino e della vendemmia, dell’ispirazione e dell’allegria. L’ubriachezza allontana l’uomo dagli affanni e genera follia, intesa anche come libertà, trasgressione e creatività. I dipinti Bacchici rappresentano i festini orgiastici, in cui è presente anche l’atto dell’urinare e ovviamente non mancano vino e uva accompagnati dai vari strumenti musicali. Segue Bacco, Tabacco e Venere con Pieter van Laer, il maestro dei bamboccianti (artisti olandesi, fiamminghi, francesi), soprannominato egli stesso Bamboccio. Dipingevano contrapponendosi alla pittura ufficiale barocca e rappresentando vivaci scene di vita quotidiana popolare con effetti di luce e colore. Continuando il percorso arriviamo a La taverna dissoluta dove la taverna è il simbolo dei vizi dei quartieri bassi legati al gioco, al fumo, all’alcol e alla prostituzione. Divertimenti e inganni e Il rituale dell’insulto ci illustrano come durante il Carnevale nelle piazze tutto è ammesso. Prende piede, ad esempio, il personaggio della zingara che attraverso scene volgari ci presenta la raffigurazione del “gesto provocatorio della fica”. Non mancano gli episodi di Disordini e violenze conseguenze di vite violente e dissolute. I soggetti raffigurati sono i più umili, quelli che vivono situazioni di miseria e terrore ritratti nei paesaggi urbani e nelle vedute di campagna. Continuando tra le mura e le scale della gallerie arriviamo a I ritratti dei margini che rappresentano il momento in cui Roma, agli inizi del XVII secolo, attira artisti, amatori, zingari e briganti. Questo è il momento in cui le personalità emarginate diventano gli eroi del teatro popolare e del romanzo picaresco. La raffigurazione di un mendicante con un cetra, per esempio, acquisisce la connotazione del filosofo cencioso, simbolo di una dignitosa povertà.

Il luogo di questi piaceri illusori è la Taverna melanconica dove tutti i cortigiani, gli amanti , i musici sono protagonisti di una festa che sta per finire e dove l’unico rimedio contro la disperazione è la musica. All’esterno i quartieri popolari di una Roma insolentita brulicano delle suddette atmosfere violente e carnevalesche.

La mostra avrà seguito da febbraio a maggio al Musée dex Beaux-Arts di Parigi, dove sarà possibile ammirare anche Il Bacchino Malato di Caravaggio, custodito nella Galleria Borghese.

Rassegna curata da Francesca Cappelletti e Annick Lemoine

Accademia di Francia a Roma

Villa Medici

Viale Trinità dei Monti, 1

Orario: da martedì a domenica 11.00 – 19.00

06/67611 – www.villamedici.it

 

da Mozzafiato https://www.mozzafiato.info/2014/10/i-bassifondi-del-barocco-la-roma-del-vizio-e-della-miseria/ 27 ottobre 2014

 

 Frida  Diego nella mia mente - Frida Kahlo

 

Nella saliva
nella carta
nell’eclisse.
In tutte le linee
in tutti i colori
in tutti i boccali
nel mio petto
fuori, dentro
nel calamaio – nelle difficoltà a scrivere
nello stupore dei miei occhi
nelle ultime lune del sole
(il sole non ha lune) in tutto.
Dire “in tutto” è stupido e magnifico.
Diego nelle mie urine – Diego nella mia bocca
nel mio cuore – nella mia follia – nel mio sogno
nella carta assorbente – nella punta della penna
nelle matite – nei paesaggi – nel cibo – nel metallo
nell’immaginazione.
Nelle malattie – nelle rotture – nei suoi pretesti
nei suoi occhi – nella sua bocca
nelle sue menzogne.

 

Diego nei miei pensieri apre la mostra su Frida Kahlo, simbolo del novecento messicano, alle scuderie del Quirinale di Roma. Attraverso le sue opere e fotografie significative è possibile ripercorrere gli anni più significativi della vita dell’artista: dall’incidente che sconvolse la sua intera esistenza al forte e controverso amore per Diego Rivera, dalle vicende familiari a quelle politiche che contrassegnano gli anni della Rivoluzione messicana.

Immagine del surrealismo onirico moderno, affronta costantemente il tema dell’auto-rappresentazione abbracciando tutti i più importanti movimenti culturali di quegli anni. Ammiriamo Frida in tutte le vesti e in tutti i colori. Suggestivo il primo Autoritratto con vestito di velluto, i paesaggi di Coyoacan e di New York City, il corsetto decorato dall’artista, i bozzetti legati all’aborto, le nature morte e una selezione di ritratti fotografici tra cui quelli di Nickolas Muray, tra cui Frida sulla panca bianca – del 1938 – che diventerà la copertina di Vogue.

I 40 capolavori appartengono a collezioni private e pubbliche provenienti dal Messico, dagli Stati Uniti e dall’Europa.

Accanto alle opere di Frida Kahlo ammiriamo anche opere di altri artisti, come David Alfaro Siqueiros, José Clemente Orozco , Maria Izquierdo e lo stesso Rivera.

La capitale ospiterà Frida fino al 31 agosto 2014. Dal 20 settembre 2014 al 15 febbraio 2015 la mostra proseguirà analizzando l’universo privato ed esistenziale di Frida e Diego al Palazzo Ducale di Genova.

                                                                                                                                                   Marianna Zito

Da Mozzafiato  https://www.mozzafiato.info/2014/05/frida-kahlo/   28 maggio 2014

 

 

 

 

 

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