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In scena fino a domenica 6 dicembre - al Teatro dell'Orologio di Roma - l'Antigone diretta e interpretata da Filippo Gili.

Come in un tribunale, si snoda la vicenda di Sofocle attraverso dialoghi filosofici e deliranti tra i vari personaggi che si spostano - a passi pesanti - da una parte all'altra della scena, tra il pubblico e dietro le quinte.                                                                       Antigone è disperata, vuole seppellire il fratello Polinice andando contro la volontà dello zio e re di Tebe, Creonte. Creonte è infuriato e condanna a morte la giovane nipote, nonché promessa sposa di suo figlio Emone. Fino alla tragedia.

 

 

 

 

 

 

 

Personaggi un po' moderni e con accento emiliano, un po' shakespeariani, oscillanti tra la pazzia e l'ironia, che giocano con le parole e gli intensi sguardi. Da un Creonte analitico - dedito al rispetto delle rigide regole della polis_ - a un _Antigone folle e disperata - che ci mostra la figura femminile che vive colpa e sottomissione - si sviluppa un'attenta analisi psicologica umana verso l'accettazione del cambiamento di idea e azione. Non manca il mito di Tiresia, immobile su una sedia a rotella, a distribuire saggezza e preveggenza per la salvezza del popolo di Tebe.

La messa in scena di un classico per mostrare i conflitti che attanagliano i nostri animi, soprattutto davanti a situazioni reali e definitive come può essere la morte stessa.

 

Marianna Zito

 

Foto di Matteo Nardone

"Piange, la stringe e la bacia. Lei lo avvolge e lo bacia.

Come un Rodin."

- Il Bacio - dipinto di Alessandro Santantonio

 

Cammina scalza sul palcoscenico Federica D'Angelo mentre interpreta una fragile e tormentata Camille Claudel. La sua persona è attorniata da tante piccole luci - che arriveranno a illuminare la sua testa come la figura spaventosa di una Gorgone o di Medusa - e da una piccola ampolla a simboleggiare lavoro e mani che hanno caratterizzato il lavoro della scultrice francese, sorella dello scrittore Paul Claudel e amante dello scultore Auguste Rodin.

 

Dalle stesse mani nasce il carteggio - raccontato in uno straziante monologo - tra la stessa sfortunata Claudel e le persone che la circondarono durante la sua vita e durante la permanenza nell'ospedale psichiatrico di Ville-Evrard, dall'età di 48 anni fino alla sua morte.

Il lavoro nasce dall'evoluzione di uno studio teatrale di Maddalena Mazzocut-Mis, basato sul materiale drammaturgico ricavato dalle lettere di Camille.

Un Rodin miope e lussurioso è il soggetto inquietante di questo monologo, che diventa la rappresentazione di un amore passionale, tormentato fino alla disperazione e alla follia attraverso le forme, le direzioni e i colori. "C'è sempre qualcosa di assente che mi tormenta".                                                                                                                               _E proprio negli anni dell'abbandono nasce  *_L'Âge Mûr* (L'Età matura), l'opera di Camille Claudel che è legata non solo a Rodin ma soprattutto all'abbandono della madre che farà sì che Camille venga rinchiusa in un ospedale psichiatrico, dove non le farà mai visita.

L'age mur niè diventa, quindi, il titolo di quest'opera, ma anche il titolo della vita negata, copiata e estirpata della protagonista che morirà sola nel letto di un manicomio.

La memoria di un amore viscerale, un delirio che si trasforma in miseria e distruzione in scena al Teatro dell'Orologio di Roma fino a domenica 6 dicembre.

 

Dal martedì al sabato ore 20.00 e domenica ore 17.00

Marianna Zito

e quannu t'ancontru 'nda strata
mi veni 'na scossa 'ndo cori
'ccu tuttu ca fora si mori
na' mori stranizza d'amuri... I'amuri.

                            Franco Battiato

 

Due lenzuoli stesi perpendicolarmente -  a disegnare una croce - segnano il percorso di questo dramma velato dall’ironia di un narratore siculo: Caronte, il traghettatore del regno dei morti. È proprio Caronte a narrarci il mito di Orfeo e Euridice, dalla richiesta al dio dei morti da parte dell’uomo fino alla perdita finale e al ritorno agli inferi di lei. I due lenzuoli simboleggiano i percorsi: la camminata di Orfeo e Euridice verso la salvezza dalla morte, prima. La strada della vita e la storia di un amore, tra Giacomo e Giulia, poi. Fino a diventare la base per una vicenda che narra il distacco, la malattia, l’accanimento terapeutico. Fino alla fine.

 

 

Attraverso movimenti lenti come un carillon, posizioni inconsuete di foto in carne e ossa, dialoghi sovrapposti e personaggi alternati, Giacomo Ferraù e Giulia Viana portano in scena la piéce teatrale firmata e diretta dall’argentino César Brie, facendoci sentire addosso gli istanti - che possono trasformarsi in lunghi anni - di una donna che, a causa di un incidente, è costretta a vivere  in uno stato vegetativo ed è tenuta in vita dalle macchine e del suo uomo che, istante dopo istante, anno dopo anno, le vive accanto improvvisandosi guida dei suoi movimenti e del suo corpo. Una vita che diventa un’agonia, un’umiliazione, l’opinione pubblica come sempre divisa a metà e la via d’uscita più nobile: l’eutanasia.

Il mito, la poesia e Battiato fanno da contorno a questo tema così doloroso e attuale. Al Teatro dell’Orologio di Roma fino a domenica 22 novembre

 

                                                                                                                                            Marianna Zito

Fino al 13 dicembre lo Spazio Diamante di Roma - in Via Prenestina 230 - ospiterà Khora.Teatro con il nuovo spettacolo ODISSEA DA OMERO A DEREK WALCOTT diretto da Vincenzo Manna e Daniele Muratore e con la supervisione artistica di Andrea Baracco.

Davanti agli spettatori si apre un ampio spazio che man mano i giovani attori e la musica riempiranno creando una perfetta scenografia di corpi. Un'atmosfera che ci porterà tra i personaggi omerici intrisi della rivisitazione teatrale di Derek Walcott. Dal passato saremo catapultati nella quotidianità attraverso i sentimenti e le emozioni provocati dai nostri mostri reali e surreali. Combattere la follia con la follia è l'unica cura.

Rivivremo, quindi, i momenti più salienti di questo viaggio che diventa metafora della vita contemporanea.

L'ombra di Ulisse abbraccia tutto lo spettacolo: l'attesa di Penelope alle prese con i proci, un Telemaco - quasi amletiano - che comincia la ricerca del padre perduto e che giunge dalla bellissima Elena, addolorata per i dolori causatigli, e accompagnata da un crudo Menelao seduto lì a sbeffeggiarla (Troia ti si addiceva.....quel caos ne valeva la pena?). Sotto l'occhio attento della saggia Atena, un Odisseo vestito di bianco si imbatterà nuovamente in Nausicaa, in Polifemo, nelle sensuali sirene e in una fantastica Circe che rievoca il mondo della sessualità e della prostituzione.

Un lavoro brillante, con spunti ironici e interessanti, in cui non mancano  riferimenti poetici come la bellissima poesia di Kavafis. Da non perdere.

                                                                                                                          Marianna Zito

Il 7 agosto del 1974 Philippe Petit ha camminato per quarantacinque minuti da una torre gemella all’altra, su una fune a più di 400 metri di altezza. Sul vuoto. Un’impresa titanica che in molti ricorderanno. Ovviamente pericolosa e ovviamente seguita dall’arresto del giovane funambolo che all’epoca aveva 25 anni. Per Philippe Petit “la creatività è illegale”, è un atto di ribellione, una corsa di meraviglia e bellezza, e per realizzarla è necessario un lungo periodo di preparazione, a volte anche molti anni. Tutto questo, insieme a consigli e trucchi, ce lo spiega nel suo ultimo libro Creatività – Il crimine perfetto (Ponte delle Grazie, 2014).

Quasi come in un diario, Philippe Petit racconta episodi della sua esistenza, intimi, che derivano da una vita trascorsa a immaginare e a creare. Un esempio sono i cataloghi di idee divisi per i temi più svariati: dalla magia alle lingue, dai reati alla musica e così via. Attraverso questa catalogazione, Petit ci insegna a programmare, a darci degli obiettivi e dei tempi ideali da rispettare, mettendo in moto il meccanismo della scadenza e della successiva realizzazione del nostro progetto. Altri passi importanti sono poi la scelta dei giusti collaboratori, l’abbattimento dell’apatia e la realizzazione di un equilibrio costante, di una stabilità.

 

 


Ogni creazione prende vita da un’idea che man mano diventa una fissazione - l’idée fixe -che non ci abbandonerà fino alla sua completa realizzazione. Questa idea è accompagnata da situazioni di caos che dobbiamo mantenere sempre in continuo movimento finché, con i tempi dovuti, riaffiora l’ordine. Il passaggio dal caos all’ordine permette, così, di trasformare la bellezza in perfezione e ciò avviene attraverso strumenti fondamentali quali le dita, gli occhi e il cervello. Tali meccanismi si mettono in moto grazie all’osservazione e all’intuito che il più delle volte ci porteranno, soprattutto quest’ultimo, a compiere azioni da fuorilegge, da ribelle, da poeta.


Il vero poeta, dunque, attua una ribellione intellettuale. È colui che infrange i divieti, che improvvisa ed è sempre sé stesso, perché la propria passione non conosce limiti arrivando a creare quasi una sorta di magia. Improvvisazione, osservazione e coraggio di andare avanti sono, pertanto, le doti essenziali per mettere in moto la nostra creatività poetica all’interno dei sistemi imperfetti.

Questo libro è una vera e propria guida esplorativa interiore e il lettore diventa il complice nella ricerca dell’impossibile che è in ognuno di noi.



 

Il 7 agosto del 1974 Philippe Petit ha camminato per quarantacinque minuti da una torre gemella all’altra, su una fune a più di 400 metri di altezza. Sul vuoto. Un’impresa titanica che in molti ricorderanno. Ovviamente pericolosa e ovviamente seguita dall’arresto del giovane funambolo che all’epoca aveva 25 anni. Per Philippe Petit “la creatività è illegale”, è un atto di ribellione, una corsa di meraviglia e bellezza, e per realizzarla è necessario un lungo periodo di preparazione, a volte anche molti anni. Tutto questo, insieme a consigli e trucchi, ce lo spiega nel suo ultimo libro Creatività – Il crimine perfetto (Ponte delle Grazie, 2014).

Quasi come in un diario, Philippe Petit racconta episodi della sua esistenza, intimi, che derivano da una vita trascorsa a immaginare e a creare. Un esempio sono i cataloghi di idee divisi per i temi più svariati: dalla magia alle lingue, dai reati alla musica e così via. Attraverso questa catalogazione, Petit ci insegna a programmare, a darci degli obiettivi e dei tempi ideali da rispettare, mettendo in moto il meccanismo della scadenza e della successiva realizzazione del nostro progetto. Altri passi importanti sono poi la scelta dei giusti collaboratori, l’abbattimento dell’apatia e la realizzazione di un equilibrio costante, di una stabilità.

Ogni creazione prende vita da un’idea che man mano diventa una fissazione - l’idée fixe -che non ci abbandonerà fino alla sua completa realizzazione. Questa idea è accompagnata da situazioni di caos che dobbiamo mantenere sempre in continuo movimento finché, con i tempi dovuti, riaffiora l’ordine. Il passaggio dal caos all’ordine permette, così, di trasformare la bellezza in perfezione e ciò avviene attraverso strumenti fondamentali quali le dita, gli occhi e il cervello. Tali meccanismi si mettono in moto grazie all’osservazione e all’intuito che il più delle volte ci porteranno, soprattutto quest’ultimo, a compiere azioni da fuorilegge, da ribelle, da poeta.



Il vero poeta, dunque, attua una ribellione intellettuale. È colui che infrange i divieti, che improvvisa ed è sempre sé stesso, perché la propria passione non conosce limiti arrivando a creare quasi una sorta di magia. Improvvisazione, osservazione e coraggio di andare avanti sono, pertanto, le doti essenziali per mettere in moto la nostra creatività poetica all’interno dei sistemi imperfetti.

Questo libro è una vera e propria guida esplorativa interiore e il lettore diventa il complice nella ricerca dell’impossibile che è in ognuno di noi. - See more at: https://www.paperstreet.it/cs/leggi/creativit-il-crimine-perfetto-philippe-petit.html#sthash.bRh6uwqW.dpuf
Il 7 agosto del 1974 Philippe Petit ha camminato per quarantacinque minuti da una torre gemella all’altra, su una fune a più di 400 metri di altezza. Sul vuoto. Un’impresa titanica che in molti ricorderanno. Ovviamente pericolosa e ovviamente seguita dall’arresto del giovane funambolo che all’epoca aveva 25 anni. Per Philippe Petit “la creatività è illegale”, è un atto di ribellione, una corsa di meraviglia e bellezza, e per realizzarla è necessario un lungo periodo di preparazione, a volte anche molti anni. Tutto questo, insieme a consigli e trucchi, ce lo spiega nel suo ultimo libro Creatività – Il crimine perfetto (Ponte delle Grazie, 2014).

Quasi come in un diario, Philippe Petit racconta episodi della sua esistenza, intimi, che derivano da una vita trascorsa a immaginare e a creare. Un esempio sono i cataloghi di idee divisi per i temi più svariati: dalla magia alle lingue, dai reati alla musica e così via. Attraverso questa catalogazione, Petit ci insegna a programmare, a darci degli obiettivi e dei tempi ideali da rispettare, mettendo in moto il meccanismo della scadenza e della successiva realizzazione del nostro progetto. Altri passi importanti sono poi la scelta dei giusti collaboratori, l’abbattimento dell’apatia e la realizzazione di un equilibrio costante, di una stabilità.

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Il vero poeta, dunque, attua una ribellione intellettuale. È colui che infrange i divieti, che improvvisa ed è sempre sé stesso, perché la propria passione non conosce limiti arrivando a creare quasi una sorta di magia. Improvvisazione, osservazione e coraggio di andare avanti sono, pertanto, le doti essenziali per mettere in moto la nostra creatività poetica all’interno dei sistemi imperfetti.

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Quasi come in un diario, Philippe Petit racconta episodi della sua esistenza, intimi, che derivano da una vita trascorsa a immaginare e a creare. Un esempio sono i cataloghi di idee divisi per i temi più svariati: dalla magia alle lingue, dai reati alla musica e così via. Attraverso questa catalogazione, Petit ci insegna a programmare, a darci degli obiettivi e dei tempi ideali da rispettare, mettendo in moto il meccanismo della scadenza e della successiva realizzazione del nostro progetto. Altri passi importanti sono poi la scelta dei giusti collaboratori, l’abbattimento dell’apatia e la realizzazione di un equilibrio costante, di una stabilità.

Ogni creazione prende vita da un’idea che man mano diventa una fissazione - l’idée fixe -che non ci abbandonerà fino alla sua completa realizzazione. Questa idea è accompagnata da situazioni di caos che dobbiamo mantenere sempre in continuo movimento finché, con i tempi dovuti, riaffiora l’ordine. Il passaggio dal caos all’ordine permette, così, di trasformare la bellezza in perfezione e ciò avviene attraverso strumenti fondamentali quali le dita, gli occhi e il cervello. Tali meccanismi si mettono in moto grazie all’osservazione e all’intuito che il più delle volte ci porteranno, soprattutto quest’ultimo, a compiere azioni da fuorilegge, da ribelle, da poeta.



Il vero poeta, dunque, attua una ribellione intellettuale. È colui che infrange i divieti, che improvvisa ed è sempre sé stesso, perché la propria passione non conosce limiti arrivando a creare quasi una sorta di magia. Improvvisazione, osservazione e coraggio di andare avanti sono, pertanto, le doti essenziali per mettere in moto la nostra creatività poetica all’interno dei sistemi imperfetti.

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Dopo l’Amletò parigino, il Teatro La Comunità di Roma ospita Sudori Freddi, una pellicola d’altri tempi, firmata sempre da Giancarlo Sepe

Attraverso una costruzione di dialoghi in lingue diverse, di musica e danze sensuali, il regista ci immerge in un’atmosfera onirica e surreale: un incubo struggente che ci lascia, fino alla fine, col fiato sospeso.

La storia si sviluppa in una sequenza di scene - alternate da luci e ombre - che passano d’avanti ai nostri occhi esattamente come in un film. A ispirare l’immaginazione di Sepe sono i racconti a quattro mani di  Boileau e Narcejac. Tra questi troviamo D’entre les morts, il racconto che ispirò Hitchcock per il suo film La donna che visse due volte, il cui titolo originale è Vertigo.      Ed è proprio la vertigine il fulcro di questo spettacolo, quella vertigine che scaturisce dalla paura che ci paralizza e ci rende impotenti d’avanti a situazioni che non possiamo controllare, come la morte o come l’amore. Una vertigine che ha come reazione immediata “gocce fredde di sudore”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I personaggi hanno le movenze di burattini disorientati, il portamento e il trucco impeccabile e raffinato e, alcuni di loro, si palesano in nudi sinuosi ed eleganti. Nell’atmosfera del realismo poetico di Prévert e di  Cocteau, gli attori si muovono sui tetti in una notte tetra della seconda guerra mondiale tra Parigi e  Marsiglia. L’amour fou paralizza la mente di questi personaggi che - soli, angustiati e smarriti - frugano all’interno del loro animo e dei loro fallimenti.

La pazzia dei sogni porterà Madeleine o Renée alla morte, la passione porterà Flaviéres ad amare e uccidere una donna fantasma ignorando “l’altra” possibilità dal nome Midge, mentre Gèvigne cercherà di proteggere una moglie che non c’è più.

Non esiste una verità, non esiste un assassino e forse nemmeno un’infelice amante morta. El amor no es de esta tierra.

DAL GIOVEDì ORE 21,00 ALLA DOMENICA ORE 18,00                          

Marianna ZIto

Da venerdì 6 fino a domenica 8 novembre, il Teatro Brancaccio di Roma ospita la compagnia del Canada’s Royal Winnipeg con il direttore artistico André Lewis e il loro splendente spettacolo - in prima nazionale - che arriva direttamente dalla Parigi bohémienne di fine ottocento: Moulin Rouge. The ballet.

Seguito e acclamatissimo in tutto il nord America, il balletto ci travolge con la musica e i vivaci costumi di scena, dai passi coreografici di uno sfacciato can can a un tango seducente e appassionante.

La storia - che si sviluppa sotto i nostri occhi quasi più comprensibile di una narrazione -  è il romantico e tormentato sogno d’amore tra i due protagonisti nell’atmosfera e tra le note figure pittoriche della Francia impressionista.

Un entusiasmo dal sapore di libertà, di poesia e di bellezza che ci farà toccare gli eccessi, i colori, la vita famigerata e dissoluta del più famoso cabaret del mondo che rimarrà acceso e animato fino all’ultimo e inaspettato respiro.

                                                                                                                                          Marianna Zito

Nell'estate del 1959, Pier Paolo Pasolini percorre la costa italiana con la sua Fiat Millecento per la realizzazione di un reportage: si tratta di un momento storico in cui la penisola è nel pieno boom economico e ricca di meravigliose spiagge che ancora non conoscono la speculazione edilizia e le mutazioni urbanistiche che la devasteranno nel decennio successivo. L’incalzante turismo di massa, infatti, si sta avvicinando, ma mancano ancora gli strumenti per gestire questo fenomeno che genera solo una forte situazione di confusione e disagio. Il reportage è pubblicato in tre tempi sulla rivista Successo; per ragioni di spazio, tuttavia, dal manoscritto originale verranno tagliati una decina di fogli.

Comincia a prendere vita in questo modo La lunga strada di sabbia. Il viaggio assume un passo lieve come il carattere pacato dell’autore, ogni tappa è una nuova descrizione scolpita di minuziosi particolari a sottintendere bellezza. Sulla strada verso il Sud, l’emozione prende piede e la prosa si lascia contaminare dai paesaggi e dalle genti di quel Meridione tutto da scoprire. La costa tirrenica scorre poi in solitudine fino alla Sicilia, dove si estendono le più povere e lontane spiagge d’Italia. Il passaggio sulla costa ionica, invece, inquieta lo scrittore e diventa quasi un sollievo, allora, percorrere la sponda adriatica, che riconduce verso i luoghi dell'infanzia, ormai però irriconoscibili e artificiosi. Le spiagge attraversate sono molteplici, così come le persone che le abitano, da quelle d’élite a quelle più povere, come i miseri e splendenti ragazzi di vita tanto cari al poeta. Le rive al nord fremono per le presenza e la bellezza di donne che si muovono ed esprimono liberamente, mentre al Sud queste si intravedono appena, a sottolineare ancora una marcata ed evidente differenza tra i sessi. La prosa elegante, profonda e scarna spesso sfocia in poesia, infondendo negli scritti un senso di intimità più che un’impronta giornalistica; ma, allo stesso tempo, Pasolini analizza i fenomeni di cambiamento con occhio critico e penetrante, prevedendo le trasformazioni imminenti che faranno seguito ai meccanismi politici ed economici di quegli anni. 

Nel 1998 gli articoli pubblicati da Successo riappaiono invariati nel volume dei Meridiani Pier Paolo Pasolini. Romanzi e racconti 1946-1961, per poi arricchirsi nel 2001 del contributo di Philippe Séclier, che decide di ripercorrere lo stesso itinerario dello scrittore e immortalare le tracce di quelle parole nelle sue fotografie, nostalgiche e al contempo piene di vitalità. Nel 2005, poi, a Parigi, Séclier incontra Graziella Chiarcossi, cugina di Pasolini, che cede al fotografo il dattiloscritto originale de La lunga strada di sabbia e due fogli manoscritti che racchiudono pagine inedite dell'autore. Ecco allora che la trascrizione integrale, gli articoli e le fotografie scattate quarant’anni dopo si armonizzeranno nel volume edito da Contrasto nel 2005 e riproposto ora nel 2014 dallo stesso editore. Un libro che si costruisce come un percorso, a tappe, alla riscoperta del prezioso viaggio per l'Italia compiuto dal poeta. 

 
                        Marianna Zito
 
   per Paper Street   https://www.paperstreet.it/cs/leggi/la-lunga-strada-di-sabbia-pier-paolo-pasolini.html

L’idea è un sogno. Il palcoscenico è una spiaggia ricoperta da piccole barche di carta, a rappresentare il viaggio scandito dal tempo che semina ricordi e mutazioni.

Attraverso questo sogno si apre un canto a racchiudere e accomunare quattro figure femminili che - con movimenti sensuali di danza saffica - narreranno la storia di un amore che ha un unico nome: Ulisse.

Penelope, Circe, Calipso e Nausicaa ci conducono tra il sogno e la realtà, tra “ora e “allora” per raccontare un percorso onirico che deve compiersi scandendo lentamente ogni suo passaggio, senza fretta. Donne che invocano lo stesso uomo, più volte perso e ritrovato, e che filano le trame di questa passione in una tela rossa lavorata non più dalla sola Penelope.

Tutto parte da Itaca e tutto vi ritorna, alla fine, con le parole di Costantino Kavafis.

Il Viaggio verso Itaca nasce da un progetto al femminile di Selene Gandini  e  sarà possibile percorrerlo fino all’8 novembre al Teatro dell’Orologio di Roma.

L’amore impossibilitato è un vortice a cadere.“Il vuoto del corpo blindato a quattro mandate” è la sua prigione - fredda - come la neve bianca a racchiudere in sé tutti i dolori possibili che ne derivano. I dolori nascono in concomitanza con la forte assenza, con il desiderio dell’oramai consumata passione e svaniscono con il sale: il sale scioglie la neve così come la lacrima scioglie ogni dolore. In questo corpo il calvario, il luogo del pensiero dove tutti i sentimenti vengono crocefissi, è il cranio. 

Incerti umani, del poeta Domenico Brancale, percorre la consapevolezza della fine del noi, ancorato al desiderio di ciò che non è stato ma che è ancora vivo nella memoria. Il tempo fagocita queste circostanze nel momento stesso in cui si avvera la possibilità di fare a meno dell’altro, del tu e del noi. La resa di fronte a questa impossibilità porta a dimenticare per andare verso la luce e per scrollarsi di dosso l’unto dell’altro che continua a sporcare senza una ragione concreta. Lo scorrere del tempo accresce la rassegnazione e l’incertezza, espresse più volte con una forma che racchiude gli antipodi: oramai. Ora è la presenza, la certezza. Mai è l’assenza, l’impossibilità dell’avvenire di qualcosa che inevitabilmente ci porta all'accettazione di ciò che è diverso dal nostro disegno prestabilito. Se né ora e né mai esistessero svanirebbe anche l’incertezza.  Il lavoro da attuare è quello di spietrare, togliere pietre, liberare il respiro dall'affanno, alleggerirsi dall'idea del doppio, di un gemello in cui ci riflettiamo da cui staccarsi, di cui si vuole fare a meno, “uno doveva, morire doveva”.                             

Incerti, gli umani, lo diventano nel momento della loro frammentarietà, nel punto in cui la voce si spezza e muore. È il momento in cui la parola diviene fiatata perché soffocata e condannata a perdersi, a vagare senza realizzare la propria compiutezza. L'essere umano diventa incerto umano. Questi sono i meccanismi che si attuano nel momento in cui avviene il distacco dall'infanzia rappresentata, in qualche modo, dalla creta o dall'argilla. È il momento in cui avvengono le prime ferite e in cui hanno luogo le prime crepe, i primi sanguinamenti che man mano ricondurranno a una rinascita. Parallelamente avviene il distacco dalla madre, dalle radici, dal latte, dal bianco che diventerà sperma fino a creare il legame con un’altra donna, un’altra madre. Mentre la terra natia rappresenta costantemente un eterno ritorno. 

La sua lingua è sempre viva, itinerante, attraverso espressioni leggibili in modo interlineare, quali possono essere cera a sole che diventa di fronte al sole oppure per amore mio che nasconde la connotazione dialettale di colpa.      

La Basilicata è la terra del calore e delle malelingue, delle radici che sradichi continuamente e che ti ricrescono sempre addosso sotto forma di rosa. Di spine.

                                                                           Marianna Zito

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