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"quando fra le mie cosce

danzerai con la tua bocca di melo

mi siederò accanto alla tua anima

berrò il pianto sanguigno dei tuoi occhi"

 

C’è un palcoscenico vuoto, con grandi dipinti – volti di donna – a occupare l’intero campo visivo dello spettatore che – al buio – attende. Attende la poesia mutarsi in parola. Le luci illuminano man mano tre punti, tre donne. La voce, il corpo, la musica. L’atmosfera crea tumulti interiori forti, crudi e spiazzanti.

Ilaria Drago ci sbatte l’amore e la verità in faccia senza mezzi termini, ci compenetra dando vita a un folle dramma interiore, facendoci danzare e sanguinare. Un lamento di dolore a sottolineare mancanza e presenza, presenza e assenza attraverso i moti rabbiosi della sessualità femminile, che vengono urlati, quasi a voler espellere il mostro che si nutre di questa essenza, dell’essere donna. Mentre si compie questo laceramento, Alessandra Cristiani si esibisce, nuda, in una danza straziante e Danila Massimi ci attraversa con le sue percussioni e il suo canto. Una bestia che latra, si dispera, a tratti ride e si diverte, piange e canta. Tutto questo per tornare alla luce.

L’ultimo di tre giorni dedicati a Ilaria Drago che, oltre all’Inquietudine della bestia, ha portato in scena, alla Casa delle Culture di Roma, un concerto poetico dedicato al pensiero di Simone Weil e il canto d’amore struggente di MaddalenaMaria che il 7 maggio continuerà il suo incanto al Teatro comunale Diana di Nocera Inferiore (SA).

Marianna Zito

I limiti esistono soltanto nell'anima

di chi è a corto di sogni.

- Philippe Petit -

Pesadilla significa incubo ed è il titolo dello studio coreografico e teatrale portato in scena da Piergiorgio Milano, che ci lascia per tutta l’esibizione sospesi in una sorta di equilibrio tra il sonno e la veglia.

Una sospensione temporale tra il conscio e l’inconscio che ripercorre la quotidianità frenetica che l’era delle telecomunicazioni e le stress urbano hanno insinuato e insinuano continuamente nelle nostre vite: un flusso di sogni e pensieri che oltrepassano i confini della realtà. Tutto è affidato a ciò che vediamo o percepiamo attraverso  movimenti sinuosi e libertà gestuale, partendo dalle mani e finendo ai piedi o viceversa, attraverso scatti ripetuti ritmicamente che creano energia per tutto il resto del corpo. Il rapporto sul palco è tra il protagonista e una sedia vuota che simboleggia quasi l’unico punto di staticità da cui parte e termina  un percorso caratterizzato da movimenti continui e coreografici.  Lo spettacolo è il vincitore del Premio Equilibrio 2015.


Pasadilla ha aperto la seconda edizione del Festival di danza contemporanea EDEN – connect the dots in scena fino al 26 aprile al Teatro dell’Orologio di Roma. Il titolo di questa edizione è ANTROPOMORFI, a sottintendere i tratti umani appartenenti ai corpi e ai contatti reciproci che si creano tra essi e tra il resto, quasi come un bisogno necessario. Il movimento assume il compito di trasportare le capacità verso quelli che sono i limiti naturali oggettivi creando un luogo personalizzato in cui viene svolta l’azione.

Interessante è l’interazione che gli artisti creano con il proprio pubblico attraverso video e dialoghi che precedono e seguono lo spettacolo. Ed è lo stesso Piergiorgio Milano a regalarci le parole del grande maestro Eduardo Galeano: “Lei è all'orizzonte […] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare".

                                                                                                                                                              Marianna Zito

la strada

22.04.2015 18:20

La strada

delle ginocchia sbucciate,

dei brandelli di carne

e sangue sull’asfalto.

Era estate

e tu partivi.

Ho camminato dritta,

-          la strada

senza voltarmi.

Era caldo, addosso, il sangue

e lo ingoiavo

come acqua e vetro.

Schegge a squartarmi

e il cuore

e la pelle

e gli occhi.

Cadono come acqua

-          le parole,

pelle bagnata assorbe

scivolandole in sangue.

Il faro si è spento

e camminiamo nel buio

-          ciechi.

La bocca serrata

disintegra le foglie

 rinsecchite dall’assenza.

Ci piovono dentro

pezzi di sale

e la tua memoria

gocciola ancora sangue.

I piatti sono sporchi

nella penombra

-          ricordi

Il letto sfatto

è ancora caldo

-          assenza 

Il tempo immobile

e tu

appeso agli angoli

dell’incoscienza.

 

Sono qui da troppo tempo, oramai.

Quando alzerai gli occhi

-          a cercarmi

sarò già arrivata al mare.

Je suis donc le fils de deux pères

                                                                                                                    l’un mortale et l’autre divin

Il buio è spezzato dal sottofondo parlato, dalla luce delle candele e dall’odore dell’incenso. Teseo è bendato e immobile al centro della scena e comincia un sirtaki che porta il pubblico a gauche et droite in una danza che riempie tutto il palcoscenico.

Lui racchiude e in lui si sviluppano tutti i personaggi, attraverso un parlato e cantato di lingue diverse ad annullare ogni tipo di frontiera, soprattutto quella dell’animo. Un racconto che ci accompagna dalla sua nascita, alle sue mille peripezie sino al labirinto per liberare Arianna dal Minotauro, un mostro in cui entrambi si fondono, che non ha passato e né futuro ma che si nutre del presente. Un Teseo esoterico e onirico -  pronto a gustare con calma tutti i piaceri della vita, attraversato dal vento in ogni sua fessura, un Teseo che non cerca la luce ma si abbandona al buio, à l’inconnu, à le silence. Una donna che reclama vendetta e possesso e un uomo che si rifiuta di liberarla per inebriarsi di quell’atmosfera lussuriosa, eterea e folle - sperma, lacrime, sangue saliva - ricca di orgasmi mentali.

Sono smarriti, quindi, in un  labirinto di piacere - che prende vita man mano sul palcoscenico -  di cui Teseo non vuole trovare l’uscita ma in cui vuole perdersi per inebriarsi e poi ritrovarsi, un movimento continuo – come un eccentrico ed etereo Carmelo Bene - alla ricerca del centro per non creare quel punto fermo che può avere il sapore di morte, per non accecarsi con la troppa luce ma per perdersi nel buio dell’oblio, nel profondo della sua vita angosciosa. È un delirio. È lo stesso Mal di Luce narrato in un carteggio dai nostri poeti Domenico Brancale e Jonny Costantino, una ricerca così vitale che ci riporta inevitabilmente al sicuro nel grembo materno. È una luce che, al momento, non assume una connotazione salvifica ma soffocante e il Velo Nero diventa, qui, la rappresentazione del libero errare nell’aria.

Una visione simbolista e meravigliosamente decadente del mito di Teseo in scena al Teatro dell’Orologio fino a domenica 19 aprile

                                                                                                                                                          Marianna Zito

Foto di Manuela Giusto

Adamo & Eva si calano dal loro Paradiso Perduto con delle funi che altro non sono se non il cordone ombelicale che li lega a ciò a cui rinunceranno irrimediabilmente e consapevolmente per sempre: il primo Amore, Dio. Un distacco assoluto che non farà altro che condurre l’uomo verso uno sgretolamento totale e irreparabile.

Sul palcoscenico – nel mondo – attraverso una nube, li attende uno stralcio di terra prosperosa e tante mele rosse da mordere in ogni tappa del percorso, che saranno sempre il simbolo – nel racconto e nella vita – di tentazione, conoscenza e cambiamento. Le tappe sono sette, come i giorni impiegati per la creazione. Si comincia dal Paradiso per arrivare sino ai giorni nostri, attraverso un cammino evolutivo che riconosce periodi storici differenti con i rispettivi personaggi: Adamo ed Eva appunto, il Cristo ucciso sulla croce, l’amore dantesco, la follia e la gelosia shakespeariane, i protagonisti della guerra e le coppie odierne divorate dall’abitudine. Tutto ruota intorno al tema logorante e sempre presente dell’amore. L’amore idilliaco agli albori, l’amore che strazia, quello che diventa abitudine, quello che massacra, che finisce per poi ricominciare - “riprendimi, rilasciami”- con lui, lei o un altro ancora. Un Adamo inebetito, voglioso di potere e ricchezza. Una Eva lussuriosa,vogliosa di amore e di casa.

Una storia di sentimenti e passione raccontati – con sarcasmo e disperazione - attraverso il tema del sacro che si affianca al desiderio di conoscenza, il progresso, di vizi e frivolezza. L’Amore - visto nel suo mutare e nel suo divenire, come un bisogno passeggero o un vuoto da colmare - è in scena al Teatro dell’Orologio fino al 19 aprile. Di e con Mauro Santopietro.

                                                                                                                                                                       Marianna Zito

i passi diversi

10.04.2015 15:54

I passi diversi sull’asfalto crepato

camminavano

                           e nel freddo

                           e di fretta

Sognava Roma la notte e

guaivi ignorato

                            e nelle strade

                            e nei vicoli

                            e nelle piazze.

Sperma di dolore e

voglia di toccare

                            e salvare

                            e attraversare

i sogni, le verità, i sigilli.

Le catene del corpo

a delineare i labirinti

                            e del sangue

                            e delle donne

                            e dei ragazzi.

A perpetuare l’anima

nel silenzio incessante

delle tue indimenticate parole.

“Una boccata d’aria nel mondo

ora che il treno ha fischiato”

Fabrizio Falco è seduto, solo e al buio, sul palcoscenico. È vestito di bianco e si muove lentamente, nel silenzio prima e nella musica poi. Comincia così quella che sarà una lunga e intensa partitura in tre tempi scanditi e ispirati a tre lavori pirandelliani Una giornata, L’uomo dal fiore in bocca e Il treno ha fischiato.        

Il tutto prende vita attraverso un gioco di sguardi ed espressioni sensazionali e significative che portano il pubblico all’analisi dei temi fondamentali dell’esistenza, quali la vecchiaia, la morte, la malattia, l’alienazione mentale, il viaggio reale e surreale: tutto riconducibile alla crisi dell’io tanto cara a Luigi Pirandello. Il nostro personaggio - da protagonista a narratore - interroga e si rivolge direttamente al suo pubblico attraverso le parole del suo conterraneo, perdendosi e fuggendo da una realtà che non è riconosciuta più come propria o che non si è mai riconosciuta come tale. Entra (ed entriamo) spesso e inconsapevolmente in situazioni abituali fino a dimenticare “che il mondo esisteva”, fino al fischio di un treno che frastorna e scompone tutto, portando a consapevolezze nuove e differenti. Il treno diventa un simbolo di cambiamento, di fuga in grado di condurre alla ricerca di sé: il fischio del treno stura le orecchie verso il mondo. Uno studio profondo dedicato all’assenza del maestro Luca Ronconi. Un monologo delicato, suadente e intenso accompagnata dalle risposte musicali immediate e suggestive di Angelo Vitaliano che sarà in scena fino al 12 aprile al Teatro dell’Orologio di Roma.

                                                                                                                                                               Marianna Zito

ho vomitato la tua mano

06.04.2015 23:20

Ho vomitato la tua mano

quella che

mi accarezzava i seni

e scendeva ai fianchi

a stringermi.

Ho vomitato i tuoi occhi

me ne ho trovato uno

mentre l'altro rotolava

lontano

a renderti quasi cieco.

Non è più azzurro

ma indaco,

finto.

Ho vomitato la tua voce,

calda e suadente voce

a chiamarmi amore.

Ho vomitato le tue ossa

mi erano spigolose nell'addome

a togliermi fiato

ogni istante.

Ho vomitato la tua lingua

che mi cercava

lasciando umido ogni tratto.

ho vomitato i tuoi piedi

insicuri a ogni passo,

inutili per ogni via.

Sono vuota e disinibita

davanti al resto,

adesso.

La scena si apre vuota, buia - ispirata al teatro ideologico espressionista, al realismo poetico di Prévert, a Jean Cocteau e al cinema francese degli anni ’30 - e man mano gli otto personaggi, accompagnati dalla musica,  prendono il proprio posto sul palcoscenico.                                                                                                                                         Da Shakespeare troviamo direttamente Amleto, Ofelia, Gertrude, il Re, Laerte e Claudio. In più arrivano - alla fine - Guillame e Rose. I personaggi hanno tutti il volto dipinto di bianco, a richiamare la pantomima con le espressioni e le smorfie tipiche del cinema muto. Siamo a Parigi sulle rive del Canal Saint Martin, è il 1939. Tutti si muovono come burattini in stato di ebbrezza, in quello che man mano appare essere ai nostri occhi l’Hotel du Nord, come nel film di Marcel Carné, del 1938.        

Claudio, non potendo possedere la peccaminosa Gertrude, alla nascita del nipote Amletó disperato, fugge dalla Danimarca per stabilirsi a Parigi, in questo albergo del mistero, dei vizi e della violenza. Proprio qui – attraverso un ponte -  lo raggiungerà la famiglia di Elsinore che è appena riuscita a sfuggire ai nazisti alla guida di un’automobile.   

Un Amleto novecentesco a tratti ironico, viziato e infantile, capriccioso e depresso, divorato dai suoi fantasmi e dalle sue ossessioni che dovrà confrontarsi con la dolce amata e ingenua - ballerina di flamenco – Ofelia, mentre il suo amore edipico tenderà solo ed esclusivamente verso la regina, sua madre. Così, come i giovani fidanzati di Carné decidono di suicidarsi insieme, anche Amletó chiede questo enorme “sacrificio di coppia” alla dolce Ofelia per creare l’opportunità di abbandonare insieme questo mondo infame, uccidendosi con una pistola ad acqua. Ofelia non glielo concederà, provocando così il disinteresse del giovane principe e decidendo di morire sola, sempre per acqua – come nel testo originale - nel Canal Saint-Martin, causando solo indifferenza e distacco negli altri personaggi. Tutto questo avviene mentre Amletò continua la ricerca del padre morto, in un’atmosfera musicale languida, a tratti triste e coinvolgente per il pubblico.                                                                                                                               Non manca la rappresentazione del meta teatro ma qui ci racconta, in qualche modo, la triste morte di Rosencrantz e Guildenstern, personificati da due attori di strada che non sono altro che Guillame e Rose.

Uno spettacolo a tratti ironico a tratti tragico dove i personaggi si cimentano in un grammelot pseudo francese – come quello utilizzato da Dario Fo - quasi completamente comprensibile e intuibile dal pubblico.                                       Dal giovedì alla domenica fino al 19 aprile - al Teatro La Comunità di Roma - l’Amletó di Giancarlo Sepe affascina e conquista con quasi due ore di spettacolo a descrivere - in modo tragi-comico - le condizioni psicologiche dell’essere umano. Una trasposizione in cui essere o non essere, vendicarsi o non vendicarsi alla fine conta ben poco, mentre l’unica cosa certa sono i tormenti e le contraddizioni dell’uomo.                                                                                                                                                                         

“a cosa ‘mpurtanti ca ‘i fa diversi e pi sempri luntani

                                                                                         è ch’unu è masculu mentre l’autra è fimmina”

                                                                              

 

Grazie a Luigi Lo Cascio, un Otello siciliano dalla pelle chiara - che non pone quindi minimamente l’attenzione su un problema razziale - ha fatto tappa in varie città di Italia arrivando anche in capitale, dove sarà al Teatro Quirino fino al 29 marzo.                                                                                                                                                           La lingua siciliana posiziona lo spettatore in uno stato di attenzione maggiore, quasi trasportandolo da una parte all’altra della narrazione come in una specie di ipnosi, ad attendere il culmine di qualcosa che si conosce e in realtà si è già compiuto ma che non si sa quando sarà palesato.    

 

Il testo shakespeariano è modificato già nel suo ordine temporale e i personaggi ridotti al minimo indispensabile: abbiamo ovviamente il “non più moro” Otello, Desdemona e Iago accompagnati dalla figura di un soldato che - per tutto lo spettacolo – narra, a ritroso e con salti temporali, la sventurata storia d’amore: tutto ha inizio dalla fine e il sipario si apre con Iago sotto tortura per i crimini commessi, crimini che confesserà legati psicologicamente al suo passato e compiuti esclusivamente attraverso l’uso delle parole.                              

 

Cambia anche il tema in confronto all’opera di origine perché la gelosia viene quasi del tutto messo da parte per dare spazio, invece, a quello che è il rapporto tra uomo e donna e al sentimento che da puro amore muta in odio irrimediabile fino alla morte della persona amata, come in questo caso. Attraverso Desdemona viene analizzata e messa in rilievo la figura della donna e il suo ruolo nella società e nei confronti dell’uomo ha accanto. Un ruolo che spesso sia nel passato sia ai giorni nostri è fagocitato e surclassato dalla personalità maschile che la guarda semplicemente e in modo riduttivo come “bottana”.                                                                    

La Desdemona di Valentina Cenni è l’unico personaggio a parlare in italiano – la diversità tra i sessi è espressa anche dalla lingua - ma la sua delicatezza nasconde uno spirito guerriero anche se tutto ciò non la allontana dal suo ruolo di vittima disperata davanti agli occhi dell’uomo Otello - interpretato da un possente e coinvolgente Vincenzo Pirrotta - che di fronte al mutato amore non fa altro che perdere il controllo e addirittura il senno fino al compimento di un atto di morte.“Il comportamento di Otello è una delle possibili devianze psicologiche che portano all’omicidio, e oggi al femminicidio” dice Lo Cascio mentre prova a spiegare, attraverso la sua lingua forte e diretta, i meccanismi della mente umana.

 

Il tutto si apre con la descrizione dell’oggetto che simboleggia il pegno d’amore tra Otello e Desdemona, un fazzoletto ricamato di fragole, dono della madre al figlio, e la voce di Otello stesso – al buio - fa da prologo presagendo in qualche modo la disgrazia.

Si finisce stranamente e inaspettatamente sulla Luna - andando a recuperare il senno come suggerisce Ariosto - dove Otello vi sbarca accompagnato dal soldato/narratore – interpretato da Giovanni Calcagno - a cavallo di un ippogrifo, per cercare l’anima della donna prima amata e poi uccisa.

 

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