Un testo, quello di Ennio Speranza, che ha come punto focale e come snodo totalizzante la parola, quella più cruda e nuda possibile. Ciò è permesso anche da una scenografia spoglia, fatta solo da 5 cubi bianchi posti sul pavimento del palcoscenico.
C’è poi un uomo, Cristian Ruiz, che aspetta un autobus. Anche lui all’inizio è totalmente nudo e crudo come le stesse parole che cominceranno a uscire dalla sua bocca, a ritmo di valzer. Parole che sottolineano una vacuità esistenziale che va dalla nascita e finisce con la morte, ribadiscono l’impossibilità al cambiamento che - nel momento in cui sembra avvenire - è solo apparente perché, alla fine, dentro di noi rimaniamo sempre gli stessi, ancorati alle sempre identiche paure, ossessioni e sofferenze che si riversano su tutto quello che facciamo, compreso il nostro lavoro e, quindi, alla produzione….del nulla. Una “coalizione a ripetere” che ci rinchiude in un vortice senza fine - sempre il medesimo giro di valzer - in un delirio che passa dalla realtà al sogno e viceversa.
Un monologo incessante, in cui oltre alla parole prendono ampio spazio lo sguardo e l’espressività di Ruiz che a tratti raggelano e a tratti divertono il pubblico perché una sfaccettatura di neurosi o nevrosi almeno una volta nella vita appartiene a tutti e questo spettacolo tragicomico ce la sbatte in faccia. Gli incidenti, i piaceri e le illusioni non fanno altro che renderci prigionieri di noi stessi ponendoci sempre davanti allo stesso dubbio amletico dal voler essere dappertutto al volere improvvisamente svanire: una depressione cosmica e dilaniante a mostrare la nostra parte doppia, quella folle.
Neurosi delle 7,47 - con la regia di Massimo Natale - è in prima assoluta al Brancaccino di Roma fino al 17 aprile.
Marianna Zito