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Le Vie dei Festival: AMLETO + DIE FORTINBRASMASCHINE al Teatro Vascello di Roma

02.10.2016 12:40

“Una funzione del dramma è l’evocazione dei morti.

Il dialogo con i morti non deve interrompersi

fino a che non ci consegnano la parte di futuro

che è stata sepolta con loro”

(Heiner Mueller, 1986).

 

L’unico attore è solo sul palcoscenico. È una figura bianca con indosso un kabuki, costume tipico del teatro giapponese - che racchiude in sé il potere del canto, della danza e delle abilità - quasi a voler connotare qualcosa di straordinario - da liberare - che va oltre l’ordine prestabilito delle cose.

In una modulazione continua di voci e un legame totalizzante con la messa in scena - che ci trasporta inevitabilmente all’immagine di Carmelo Bene - uno straordinario Roberto Latini travolge il palcoscenico con la potenza del suo corpo e dei suoi movimenti attraverso linguaggi e stili differenti ma con l’obiettivo di un unico e preciso risultato: accordare l’azione alla parola e viceversa.          

Ma tutto quello che avviene - e che diventa possibile solo attraverso la musica e i suoni di Gianluca Misiti e le luci di Max Mugnai - è reale o fa parte solo dell’immaginazione? Della nostra o di quella dell’attore stesso?

Comincia così - nella solitudine di una figura bianca al centro del palcoscenico - l’omaggio al dramma postmoderno di Heiner Müller (scritto nel 1977 e liberamente ispirato all’Hamlet di William Shakespeare) che utilizza il personaggio Amleto per analizzare la distruzione della figura dell’intellettuale durante l’epoca comunista della Germania dell’est - momento cruciale in cui crollano tutte le ideologie che facevano intravedere la luce di un cambiamento.                                                                        Come sopravvivere a questo? L’essere umano disgustato dal presente attua, quindi, una trasformazione cosciente in macchina - l’ultima speranza possibile. I would like to be a machine. Wouldn’t you?, diceva Andy Warhol che ci sembra di riconoscere a tratti negli spostamenti dell’attore fuori e dentro un enorme e simbolico cerchio di luce, prima di divenire altro.

Roberto Latini - in una riscrittura a quattro mani con Barbara Weigel - muta la Hamletmaschine di Müller in una Fortinbrasmachine – un nome che omaggia sì la Compagnia ma che allo stesso tempo ci riconduce verso l’opera  scespiriana  con l’analisi interiore dell’unico e solo non personaggio presente in tutta l’opera originale , l’unico sopravvissuto e mai visto fino alla fine: Fortebraccio. Nel titolo stesso è una croce  (presente anche  in diverse collocazioni, forme e oggetti sulla scena)  a dividere chi non è più - Amleto - e chi sarà a partire dalla sua morte - Fortebraccio. Una compiutezza questa che si svolge al di fuori dell’opera mulleriana, dove i personaggi senza spazio, tempo né identità sono incapaci a morire e sono sottomessi a uno svisceramento dell’anima e riconducibili a noi in un’analisi che racchiude elementi classici e postmoderni.

Amleto-Latini è al di fuori del suo dramma, è fuori dalla sua parte, irrisolto a recitare un ruolo che più non gli appartiene e a vivere luoghi che non esistono. Senza una meta, senza se stesso. È fuori da un mondo devastato e bugiardo che lo ha deluso, alla ricerca di valori che non esistono. Non c’è posto, non c’è tempo, non c’è parte. Da una persona esistita (Ich war Hamlet) Latini ci conduce verso una non persona (Io non sono Amleto) e così l’assenza di un passato porta inevitabilmente all’impossibilità al cambiamento. Ma, del resto, nel testo di Latini la macchina è di Fortebraccio, ed è  egli stesso che deve ricondurci all’origine, ad Amleto: io arrivo quando tutto il resto è silenzio. Where is the sight?                                                                                      Ophelia-Latini è un’icona vestita del proprio sangue, nel suo abito bianco che non si può indossare, con parole che non riesce più a cantare e solo un ticchettio. Il suo battito da donna sfruttata che ha la forza ancora di ribellarsi.                                                                                                                             

E il nuovo dramma si sviluppa arricchito dall’ ironica comicità di Latini che diverte, amareggia e fa riflettere: un’ironia che si mescola al desiderio di libertà, uguaglianza e fraternité tanto viva nel tempo passato quanto nel presente, mentre uno ad uno si snocciolano gli altri personaggi della tragedia, ripetendo e sovrapponendo le loro storie, raccontando l’uno all’altro e consegnandosi a noi senza identità e senza risposte in un esperimento di metateatro che il pubblico del Teatro Vascello ha accolto con un lunghissimo applauso.

Marianna Zito