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Giuseppe Acquaviva (Ruggero Cappuccio) convoca con urgenza i suoi tre fratelli Romualdo (Giovanni Esposito), Gabriella (Gea Martire) e Gennara (Marina Sorrenti) presso la casa dove hanno vissuto la loro infanzia. La casa - all’ultimo piano della famosa Via Spaccanapoli che divide il centro di Napoli, è ormai abbandonata: è proprio in questo luogo - pieno di ricordi - che ogni personaggio porta in scena il suo dramma. 

Comincia così la pièce Spaccanapoli Times, un testo scritto e diretto da Ruggero Cappuccio, vincitore del Premio le Maschere 2016 come Migliore autore di novità italiana, che vede anche il debutto dello stesso come attore.

In attesa di conoscere il misterioso motivo della convocazione, gli attori danno vita a quattro personaggi complessi: Giuseppe è uno scrittore che vive tra il binario 8 e 9 della stazione Centrale di Napoli, compone versi che detta al telefono ad un amico pregandolo di pubblicarli in anonimato, solo dopo la sua morte, Romualdo è un pittore che dipinge quadri ma una volta terminata l’opera la distrugge, Gabriella è donna ossessionata dai suoi amori passati e, infine, Gennara è una vedova che parla con il defunto marito. Ognuno, quindi, ha la propria pazzia che espone in un linguaggio  ricco di contaminazioni dialettali e di anglicismi e con una comicità coinvolgente, tingendo la storia di sfumature drammatiche e offrendo spunti di riflessioni sul nostro tempo.

Infatti, i fratelli Acquaviva sono smarriti e frastornati dalla modernità imperante che li circonda e che li travolge, ritengono che il progresso abbia complicato l’esistenza dell’uomo e lo abbia reso fragile e smarrito.

La scenografia è semplice ma, allo stesso tempo, complessa e per giunta ecologica in quanto è composta da muri di bottiglie di plastica riciclate, gli elementi di scena sono solo pochi oggetti, in modo che l’attenzione sia focalizzata tutta sugli attori, mentre gioca un ruolo fondamentale l’illuminazione poiché luci ed ombre enfatizzano i vari momenti della storia.

Spiccano le interpretazioni dei personaggi di Giuseppe e Romualdo che trascinano lo spettatore e lo spingono ad indagare nel proprio io. 

Lo spettacolo sarà in scena al Teatro Eliseo di Roma fino a domenica 7 maggio

 

Aurora Andersen

Foto di Marco Ghidelli

 

 

Uno spettacolo diverso Non aver paura...è solo uno spettacolo, il cui obiettivo è l’analisi psicologica dell’unica paura che dovremmo avere, quella della paura stessa.

Tra ansia, spavento e risate ci troviamo immersi nel lavoro scritto da Eduardo Aldàn e diretto da Ricard Reguant, tradotto e adattato per la versione italiana da Franco Ferrini su un progetto di Gianluca Ramazzotti.

Sin dall’ingresso l’atmosfera cupa, la musica e le maschere di sala ci preparano a questo esperimento teatrale e - con suspense e, perché no un po’ di ansia - ci accingiamo ad assistere a tre storie dell’orrore - legate principalmente alle nostre principali paure dell’infanzia e non: bambole, baby sitter, statuette e clown - che si agganciano alla narrazione principale che abbraccia tutto lo spettacolo: un incendio che nel 1915 distrusse completamente la sala in cui ci troviamo e dove persero la vita Ettore Sperelli e sua figlia Violetta di soli sei anni. I loro corpi non furono mai trovati e non si esclude che i loro spiriti vaghino ancora all’interno del teatro.

Tutto ciò è narrato magistralmente da Gianni Garko e interpretato da Claudia Genolini, Luca Basile e Yaser Mohamed.

Non vogliamo svelare niente, ma aspettatevi effetti scenici e musiche da urlo con riferimenti ai grandi classici dell’horror e riflessioni non di poca importanza sulla società del potere e sulla vita stessa.

Ci si può davvero spaventare a teatro? Sapete sempre chi è seduto dietro di voi? Scopritelo al Teatro Ghione fino a domenica 14 maggio.

Marianna Zito

Enrico Lo Verso porta in scena Uno Nessuno Centomila - tratto dall’ultimo romanzo pirandelliano - al Teatro Sala Umberto di Roma fino a domenica 30 aprile - in un monologo intenso a più voci: Lo Verso - con un linguaggio moderno, ironico e la giusta inflessione siciliana - si destreggia tra i vari personaggi rinvigorendo - con la sua bravura e la sua esperienza - una storia che diversamente potrebbe risultare uniforme e impegnativa.

Col riadattamento e la regia di Alessandra Pizzi, ritroviamo un Vitangelo Moscarda che altri non è che un folle uomo contemporaneo - ma anche del passato e del futuro - alla ricerca di continue approvazioni e soprattutto di se stesso, che abbandona le numerose maschere quotidiane uscendo dai ruoli e dagli schemi per affrontare quelle che sono le più frequenti problematiche esistenziali, a partire dal proprio naso. Questa ricerca di identità lo proietta verso la conoscenza e - senza timore - verso un cambiamento che diventa sinonimo di curiosità e coraggio.

Foto di Igino Ceremigna

Settanta minuti di spettacolo su un palcoscenico quasi vuoto dove sono presenti solo due cubi e specchi che scendono dall’alto, illuminati da luci soffusi e accompagnati da suoni e rumori che terranno il pubblico ben ancorato alla poltrona.

Marianna Zito

 

Dal 18 al 30 aprile al Teatro Quirino di Roma va in scena Il Borghese Gentiluomo di Molière, interpretato da Emilio Solfrizzi con la regia di Armando Pugliese.

Monsieur Jurdain, un borghese arricchito, cerca con tutto se stesso di diventare un nobile gentiluomo e - per elevare rango e conoscenze - si circonda di insegnanti di ogni sorta per poter imparare l’araldica, la filosofia, la danza e la musica. Si scoprirà ben presto che questi altri non sono che adulatori interessati solo al denaro. Si contrappone alla situazione la moglie - Anita Bartolucci - che, con fare deciso, cerca in ogni modo di far rinsavire il marito per poi, infine, assecondarlo nella sua follia. All’interno della storia si collocano altri personaggi quali la figlia Lucilla - Viviana Altieri - che desidera sposarsi con un giovane privo di nobili natali e per questo osteggiata dal padre.

L'inutilità delle nuove abitudini risultano agli occhi altrui bizzarre, ma Monsieur Jurdain è disposto a cadere nel ridicolo pur di essere considerato un uomo di alto rango e arrivare così alla realizzazione dei propri sogni. Viene quindi evidenziata la figura tipica dell'arrampicatore sociale, ovvero colui che ha la pretesa di comprare quei titoli o quei meriti che non gli apparterranno mai.

Il risultato è una divertente commedia resa ancor più piacevole dal talento istrionico di Solfrizzi. Le scenografie sono essenziali e quasi prive di materiale di scena, la quale si riassume nell'interno di un'ampia stanza; mentre ai dialoghi si alternano momenti di canto e di ballo riproponendo una pièce dove l'obiettivo unico e finale è la risata. Da vedere.

Aurora Andersen

Il Teatro Lo Spazio - con la sua struttura a due palchi, le porte e l’atmosfera soffusa - si presta perfettamente al lavoro di Giorgia Filanti, che porta in scena quattro personaggi che delineano - con i loro movimenti corporei e i pochi dialoghi - il mito di Phaedra.

È raccontata la malattia dei tempi moderni - o forse no - quella sessuale che, come ci dimostra IppolitoFederico Citracca - può diventare il fulcro della quotidianità di un individuo. Mentre Fedra - Serena Borelli - e Strofe - Giulia Adami - ce ne mostrano il lato folle e incestuoso e Teseo - Manuel D’Amario - quello più profondo, dal sapore di morte. È il sesso che diventa sacrificio, lì dove l’oggetto del desiderio non può che mutarsi in cibo per soddisfare le pulsioni altrui, mai sazi.

Giorgia Filanti ci riporta un po’ al punk rock della seconda metà degli anni ’70, ma ci fa pensare anche a Jim Jarmush o al gotico Tim Burton con questa rappresentazione sperimentale del teatro; dove il punto focale è l’incontro dei corpi e il movimento degli stessi per urlare una frustrazione sempre più ricorrente, soprattutto nella nostra era mediatica.

Al Teatro Lo Spazio di Roma fino a sabato 15 aprile.

 

Marianna Zito

Foto di Pino Le Pera

Le opere del drammaturgo Neil LaBute ci piombano spesso addosso come macigni lasciandoci senza respiro in un susseguirsi di continui colpi di scena che poco alla volta disegnano - davanti ai nostri occhi - la trama, la verità.

 La traduzione e la regia di Marcello Cotugno di In a Forest Dark and Deep e la scelta dei due protagonisti Paolo Giovannucci e Chiara Tomarelli  danno a questo spettacolo - in scena al Teatro Studio Argot di Roma  - il giusto ritmo e la giusta suspense di una dark comedy dove due fratelli - Betty e Bobby - affrontano il presente ripercorrendo - con forza e dolcezza - a ritroso aneddoti  e ricordi intimi del passato, analizzando così il loro legame fraterno e i propri lati oscuri per arrivare a una consapevolezza maggiore del presente. 

La scenografia di Alessandro Vannucci è piena e in subbuglio, come l’animo di chi vi si trova in quel preciso momento:  pagine - come foglie - formano un pavimento pieno di indumenti e libri, bottiglie prima piene e poi vuote.

Bobby si districa da reazioni sessiste e razziste a un’accanita indole puritana, da azioni violente a passione estrema, mentre Betty elude le verità basando la propria vita familiare su perfette menzogne e felicità apparente raccontate con effetti sonori, musiche e fermo scena che danno alla piéce quel tocco tipico del thriller americano, la cui souzione è Dall’altra parte del bosco, in un luogo più distante dalla casa della foresta in cui si trovano a trascorrere la notte i due protagonisti.

 

Marianna Zito

Foto Fabio Lovino

Pruduzione Khora Teatro

La compagnia Ariel dei Merli torna in scena alle Carrozzerie n.o.t., fino a sabato 8 aprile, con uno spettacolo ispirato alla vita e alle opere di Virginie Despentes, scrittrice francese, autrice di opere letterarie e cinematografiche in cui affronta, sempre in chiave femminista e autobiografica, temi quali lo stupro, la pornografia e la prostituzione.

In questo ideale secondo capitolo, successivo al monologo “Testo tossico”, Francesca Manieri e Federica Rossellini esplorano nuovamente le tematiche di genere e l’universo femminile in un lavoro che, mettendo insieme alcuni degli aspetti più scandalosi e toccanti della Despentes, fa emergere la potenza vitale ed espressiva di un corpo plurale, frammentato e violato.

Quattro donne, Elvira Berarducci, Dacia D’Acunto, Barbara Mattavelli, Ilaria Matilde Vigna, nel loro muoversi tra fili aggrovigliati e simboli fallici, viaggiano su un autostrada che attraversa uno Stato, la Virginia,  che, al tempo stesso, rappresenta uno stato narrativo (il racconto di uno stupro) e mentale (il superamento della violenza e l’analisi di ciò che caratterizza l’essere donne).

Il King Kong della Despentes, nel suo saggio King Kong Théorie, è una creatura fantastica, metà tra uomo e animale, buono e cattivo, primitivo e civilizzato.

In questa pièce teatrale, sullo sfondo della terra vergine, rivive sia Virginie, la scrittrice, sia la sua scimmia, simbolo di una sessualità che oltrepassa i generi ma che accompagna il femminile, eccitandone i desideri ed interrogandolo sulle proprie identità.

Eleonora De Caroli

 

 

L’amore. L’amore è la parola che caratterizzò tutta la triste vita della chanteuse Edith Piaf e proprio di amore ci racconta il poliedrico artista Gianni De Feo che ritorna sul palcoscenico del Teatro Lo Spazio, nei panni di un clochard e attraverso le parole scritte da Ennio Speranza.

L’ambiente buio e piccolo crea una sorta di intimità con il pubblico che si incanta in questa atmosfera caratterizzata da momenti musicali decisi e intensi, grazie alla voce di De Feo e alla fisarmonica di Marcello Fiorini.

E trascorre qui il tempo mentre ascoltiamo i frammenti di una vita gloriosa e spezzata - da artista di strada a mito canoro francese del ‘900 -  e di canzoni riproposte con intensità e passione. Passione per lei, per la sua anima sofferente, per la Francia, per i personaggi che ci vissero o che le furono vicini, tra cui ricordiamo il grande Jean Cocteau.

 

È un omaggio intenso quello di De Feo per Edith Piaf - incentrato sui ricordi e sulla memoria - in un luogo dove un mazzo di fiori, due sedie e un paio di ali innalzate sono gli unici elementi a riempire questa scena, questa vita.

Al Teatro Lo Spazio fino a domenica 9 aprile.

 

Marianna Zito

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